Originalmente pubblicato su Tricycle magazine,
www.tricycle.comTraduzione di Gagan Daniele Pietrini
Jack Kornfield, autore di A Path With Heart, insegna Vipassana nello Spirit Rock Center di Woodacre, in California. Questa intervista è stata fatta a San Anselmo in California da Robert Forte, studioso di buddismo e di storia e psicologia delle religioni, riveduta per la rivista “Tricycle” e concessa a Innernet per la pubblicazione in lingua italiana.
Robert Forte: Esiste un punto di vista buddista sulle sostanze psichedeliche?
Jack Kornfield: No. Le sostanze psichedeliche sono citate raramente, se mai sono citate, nella tradizione buddista, e di solito nei precetti sono considerate in blocco sotto il nome di “intossicanti”. Nella tradizione zen, vajrayana e theravada se ne fa scarsa menzione, né esiste un punto di vista tradizionale sul loro uso. È importante comprendere questo. Le nostre idee in proposito vengono dalla riflessione dei maestri e insegnanti buddisti sulle esperienze contemporanee.
Nel buddismo theravada, il precetto che riguarda le sostanze intossicanti è uno dei cinque fondamentali per una vita saggia: non uccidere, non rubare, non dire il falso, non avere una condotta sessuale che provochi sofferenza e, infine, non usare sostanze intossicanti fino a cadere nell’incoscienza o nello stordimento. Secondo un’altra traduzione, non bisogna usare alcuna sostanza che alteri il senso dell’attenzione. Poi, è compito dell’individuo (come per tutti i precetti) usare queste indicazioni per raggiungere una consapevolezza genuina.
Robert Forte: I precetti sono interpretati nello stesso modo in oriente e in occidente?
Jack Kornfield: In Asia hanno un ruolo più importante per la pratica. Lì, è tradizione cominciare dalla “shila”, o azione compassionevole. Questo impegno a non provocare dolore è il fondamento su cui si basa tutta la vita spirituale. È universalmente accettato che non puoi meditare bene dopo una giornata di furti e bugie! Per liberare il cuore dall’avidità, la paura, l’odio e l’illusione, occorre coltivare un rapporto nonviolento con il mondo. Dal fondamento di questa condotta compassionevole si sviluppa l’intera gamma delle altre pratiche meditative e spirituali.
Robert Forte: In che modo?
Jack Kornfield: Vivendo in modo armonioso e compassionevole, hai già cominciato a calmare la mente e aprire il cuore. Poi, il secondo dominio è addestrarsi attraverso la meditazione, le visualizzazioni e le pratiche yogiche che addomesticano la frenetica mente-scimmia. È il potere di queste pratiche a dissolvere le barriere della mente e l’identificazione con il nostro piccolo senso dell’io. Esse unificano il corpo, il cuore e la mente attraverso la concentrazione, aprendoci ai vasti regni interiori.
Il terzo dominio è il sorgere della saggezza, o “prajna”. Grazie a una vita compassionevole e alla pratica meditativa, la consapevolezza diventa chiara e aperta. La saggezza nasce quando comprendiamo il modo in cui la consapevolezza crea il mondo, e scopriamo la libertà e il grande cuore di un Buddha al centro di tutto ciò. Grazie a questo fondamento di saggia condotta e addestramento interiore, si prepara il terreno per la saggezza più profonda, che si integra naturalmente nella nostra vita.
Quello che è successo in occidente sembra il contrario di ciò.
Robert Forte: Il contrario? Cosa intendi dire?
Jack Kornfield: Per molte persone, l’LSD, i funghi e altre sostanze psichedeliche (spesso accompagnate da letture del Libro Tibetano dei morti o di testi zen) hanno aperto, in una certa misura, le porte della saggezza. Quelle persone hanno cominciato a capire che la loro limitata consapevolezza era solo un livello, e che c’erano mille altre cose da scoprire sulla mente. Hanno visto molte nuove dimensioni e prospettive sulla nascita e la morte, comprendendo che la natura della mente e della consapevolezza ha a che fare con la creatività, e che non è il prodotto meccanico di un corpo. Alcuni si sono aperti al di là dell’illusione dell’isolamento, fino alla verità dell’unità delle cose.
Ma per mantenere questa visione, bisognava fare un uso continuo delle sostanze psichedeliche. Per molte persone, queste esperienze, anche se provocavano una certa trasformazione, tendevano a scomparire. In conseguenza di ciò, alcuni hanno detto: “Se non riusciamo a mantenere i picchi di consapevolezza creati dalle sostanze psichedeliche, vediamo se esiste un’altra via”. E così hanno cominciato vari tipi di discipline spirituali. Hanno praticato il kundalini yoga e la respirazione “bastrika”, si sono impegnati seriamente nella “sadhana” dell’hatha yoga, hanno provato il raja yoga, esercizi sui mantra e la concentrazione, oppure pratiche buddiste per rivivere quei profondi e affascinanti stati scoperti grazie alle sostanze psichedeliche.
Robert Forte: Stai dicendo che queste ultime hanno creato nella gente una sete dell’esperienza?
Jack Kornfield: Una sete, sì, è corretto.
Robert Forte: Pensi che questa sia la stessa sete che la seconda nobile verità del Buddha considera la causa della sofferenza, laddove dice che soffriamo a causa del nostro desiderio o sete di esperienze mentali o sensuali?
Jack Kornfield: Le sostanze psichedeliche non hanno soltanto risvegliato nelle persone una sete, ma hanno fatto loro comprendere le potenzialità dell’esplorazione della mente e del corpo. Le persone hanno capito che potevano vivere in modo diverso. A quel punto, hanno cominciato a sviluppare la propria sensibilità e le proprie facoltà intuitive senza dover ripetutamente assumere quelle sostanze, ma cominciando una disciplina spirituale, lo yoga o la meditazione. Alla fine, molte persone hanno compreso che nemmeno la pratica meditativa rendeva stabili quelle esperienze, se non coinvolgeva anche il resto della vita. Hanno scoperto che era necessario fare attenzione alle proprie azioni, in modo che fossero compassionevoli e non provocassero dolore. Quindi, abbiamo scoperto che un cambiamento fondamentale deve avere radici nel nostro comportamento etico, e nella compassione seguita da un sistematico addestramento interiore. Queste sono le basi per un accesso duraturo e integrato a tali esperienze di trasformazione.
user posted image
Robert Forte: Quanto sono state importanti le sostanze psichedeliche per introdurre le pratiche spirituali orientali negli Stati Uniti, durante gli anni sessanta?
Jack Kornfield: Per me, sono state senza dubbio importanti. Ho preso l’LSD e altre sostanze psichedeliche a Dartmouth, dopo aver cominciato a studiare le religioni orientali. I due interessi sono nati insieme, come per molte altre persone. In realtà, la maggior parte degli insegnanti buddisti occidentali ha usato le sostanze psichedeliche, all’inizio della loro pratica spirituale. Molti ancora lo fanno, di tanto in tanto. Ma delle diverse centinaia di persone di mia conoscenza che hanno preso sostanze psichedeliche, solo poche hanno avuto un’esperienza di trasformazione radicale. Per molti, le sostanze psichedeliche sono state fonti di grande ispirazione, per pochi il loro uso si è rivelato dannoso. È come vincere alla lotteria. In molti giocano, e anche se non sono tantissimi quelli che fanno grosse vincite, la possibilità di queste ultime esiste.
Robert Forte: Si racconta che quando è stato chiesto al Dalai Lama se si possono usare le droghe per raggiungere l’illuminazione, egli ha risposto: “Spero certamente di sì”. E quanto è stato chiesto al maestro zen Seung Sahn cosa ne pensava dell’uso delle droghe come ausilio nella ricerca dell’autoconoscenza, la sua risposta è stata: “Sì, esistono speciali medicine che, prese con il giusto atteggiamento, possono facilitare l’autorealizzazione”. Poi ha aggiunto: “Ma se hai l’atteggiamento giusto, puoi fare qualsiasi cosa. Anche una passeggiata o un bagno”.
Jack Kornfield: Ho il massimo rispetto per il potere delle sostanze psichedeliche. Se sull’argomento ho una posizione moderata, non vuol dire che non provi un grande rispetto per esse o per il lavoro che alcuni ricercatori coraggiosi hanno svolto con esse.
Quello che penso, in base alla pratica buddista fatta e insegnata per molti anni, è che la gente sottovaluta la profondità del cambiamento necessario per la vita spirituale. La liberazione autentica richiede una lunga prospettiva… Quella che un maestro zen ha chiamato “una mente di grande pazienza”. Sì, il risveglio arriva in un istante, ma viverlo, renderlo stabile, può richiedere mesi, anni e vite intere.
Le nostre tendenze o abitudini condizionate sono così radicate che nemmeno le visioni più irresistibili riescono a cambiare granché. Quindi, le pratiche di liberazione insegnate dal Buddha attingono a molte dimensioni della vita, per cercare di rendere stabile una trasformazione tanto profonda. La liberazione del cuore dall’avidità, l’odio, l’illusione, la paura e il senso di isolamento è una possibilità molto affascinante per gli esseri umani.
Quando hai cominciato una profonda pratica spirituale, di qualsiasi tipo (anche le esperienze psichedeliche), cominci a imbatterti nelle radici dell’Avidità, con la A maiuscola. Queste sono le prime realtà che incontri. E l’Odio: nella tua mente trovi Hitler e l’unno Attila. Poi l’Illusione, che si manifesta come la più cieca confusione. Devi imparare a lavorare con queste forze, trasformandole in modo da arrivare a una liberazione autentica.
Molte persone usano le sostanze psichedeliche in modo incosciente e scriteriato, senza comprendere cosa stanno facendo. Il contesto spirituale va perduto. È come prendere una pillola di mescalina sintetica, senza percorrere trecento chilometri a piedi nel deserto e senza trascorrere mesi in preghiera e purificazione, come facevano gli Huichols prima della cerimonia del peyote. Esploratori moderni, come Stan Grof e Ram Dass, hanno descritto il potere delle forze che si possono incontrare. Occorre rispettare la profondità di queste esperienze e impegnarsi consapevolmente a percorrere fino in fondo il viaggio della trasformazione spirituale.
Robert Forte: Cosa mi dici della dipendenza?
Jack Kornfield: Anche tra i più consapevoli esploratori della psichedelia contemporanea, la dipendenza e l’attaccamento rappresentano talvolta un problema. Ma ancora più pericoloso è il fatto che alcune persone parlano in termini estremamente positivi sia dell’uso sacro che di quello occasionale di queste droghe, quando queste stesse persone non sono affatto riuscite a padroneggiarle.
Come molti di noi abbiamo scoperto, usare sostanze psichedeliche non è una pratica da prendersi alla leggera. L’interpretazione più liberale dei precetti autorizzerebbe un loro uso non abitudinario (il che vuole dire probabilmente occasionale) e sacro. Se si usa una sostanza – che si tratti di vino, marijuana, LSD o funghi – questo precetto dice di farne una parte consapevole e attenta della propria vita. Se si comincia il viaggio senza i precetti, ci si perde o si finisce fuori strada. Non puoi arrivare alla fine del viaggio se non hai le giuste basi: questo è un messaggio davvero semplice.
In quasi tutti i sistemi del mondo in cui è previsto l’uso di sostanze – incluse le molteplici forme di sciamanesimo – esse vengono assunte in un contesto di purificazione.
Robert Forte: Quali sono le possibili purificazioni di un’esperienza psichedelica, oggi?
Jack Kornfield: Innanzitutto, c’è la purificazione consistente nel “non infliggere dolore”, o “shila”. Dopodiché, vi sono purificazioni del corpo attraverso lo yoga, il respiro, il digiuno e altre pratiche che permettono al corpo di essere aperto e di percepire questi livelli più profondi, integrandoli. Anche se fisicamente sei a pezzi, prendendo una sostanza molto potente puoi arrivare a toccare livelli davvero profondi. Ma questo ha un prezzo da pagare a livello fisico. Quando il tuo corpo è armonioso e aperto, puoi aprirti a livelli più profondi provocando squilibri fisici molto minori. Inoltre, questo permette all’esperienza di venire integrata. Se non prepari il corpo, non puoi contenere tale conoscenza.
Poi, ci sono le purificazioni del corpo e della mente, cioè delle emozioni e dei pensieri. Per molti, purificare il cuore vuol dire perdonare e aprirsi di più; ovvero, vedere la rabbia, la paura e i ricordi che sono stati imprigionati dentro di sé, liberandoli. “Purificazione del pensiero” vuol dire affrontare la pazza mente-scimmia, con il suo incessante dialogo interiore, e cominciare a praticare una certa stabilità mentale. Per diverse persone, questo accade grazie a una pratica lunga e regolare, usando la meditazione seduta, i mantra, la visualizzazione o cento altri modi. Una volta che la mente è stabilizzata, puoi usare questa chiarezza per scoprire le leggi della mente o della consapevolezza.
Robert Forte: Qual è il rapporto tra un “trip” psichedelico e un viaggio spirituale?
Jack Kornfield: In un viaggio spirituale, il fine è risvegliarsi alla nostra naturale libertà interiore, la nostra natura autentica. Per fare questo, dobbiamo cominciare da dove siamo. Quando cominci a calmare la mente e ad aprire il cuore, incontri spesso ondate di desiderio, paura, rabbia, pigrizia o inquietudine. Questi sono gli ostacoli preliminari alla trasformazione. Impari a usare la saggia attenzione per non perderti o cadere vittima di essi. Man mano che il corpo e la mente diventano più aperti e purificati, impari a diventare equilibrato e a non farti prendere da queste energie, usando questa capacità per accedere ad altri domini di consapevolezza.
Poi, se dovessi entrare in un dominio di pura luce, colmo di amore ed estasi, avrai imparato come farlo senza attaccarti troppo. Lo vedrai come parte di uno spettacolo passeggero. E con lo stesso atteggiamento puoi scendere nei regni infernali dentro di te. Diventi libero nel regno della nascita e della morte; impari ad aprirti a essi senza attaccamento o avidità. Qui non impari soltanto i contenuti delle varie dimensioni della consapevolezza (i quali potrebbero essere conosciuti anche grazie alle sostanze psichedeliche), ma a relazionarti a essi in modo saggio. Se dovessi scrivere in maiuscolo una frase di questa intervista, sarebbe questa: il risveglio spirituale non consiste soltanto nell’avere una visione delle molte dimensioni del cuore, la mente e il corpo, ma anche nell’imparare ad aprirsi a esse con saggezza, compassione e vera libertà.
Robert Forte: Come possiamo interpretare l’effetto di guarigione dell’esperienza psichedelica, dal punto di vista della psicologia e della meditazione buddista?
Jack Kornfield: La guarigione accade in molti modi, ma quello fondamentale, nella pratica buddista, consiste nel portare consapevolezza a ciò che era distorto, aggrovigliato o tenuto nell’oscurità dentro il corpo, nei sentimenti o nella mente. Attraverso la pratica sistematica della meditazione si porta il potere della compassione e dell’attenzione a questi nodi, liberando ciò che era trattenuto in profondità. Esistono molti schemi mentali nei quali ci blocchiamo: convinzioni, idee e opinioni che rafforzano la nostra convinzione in un io separato. Anche ciò può essere portato alla luce e guarito.
La guarigione con le sostanze psichedeliche è pressoché la stessa cosa. Essa accade in una situazione adeguata e agendo con prudenza: allora l’inconscio viene “aperto” da queste sostanze. Forse rivivrai un trauma, o sperimenterai il dolore trattenuto nel tuo corpo fisico dopo un incidente o un’operazione, oppure la tensione di una rabbia o di desideri profondamente rimossi sale alla coscienza e viene liberata. La guarigione accade portando alla consapevolezza ciò che prima era al di sotto della sua soglia. Parte delle difficoltà legate all’uso di queste sostanze (ma lo stesso vale per la meditazione, a un certo punto) è dovuto al fatto che questo succede troppo presto e le persone si sentono sopraffatte. C’è il pericolo che esse, subito dopo, si chiuderanno immediatamente, perché hanno toccato un punto troppo spaventoso o difficile. Ma esistono guarigioni che accadono in quel modo a tutti i livelli del corpo, del sentimento e della mente.
Robert Forte: Un’idea fondamentale, sia nell’antica saggezza che nel nuovo paradigma, è che l’isolamento è un’illusione, un livello superficiale della realtà, e che a un livello fondamentale tutte le cose sono connesse. Questo è difficile da comprendere sul piano sensoriale o intellettuale, dove l’esperienza suggerisce che le cose sono separate. Se le sostanze psichedeliche sono in grado di provocare l’esperienza di questa unità essenziale, non sono forse uno strumento prezioso nello sviluppo di un nuovo paradigma che enfatizzi l’unità?
Jack Kornfield: Qualsiasi strumento o pratica in grado di aprirci il cuore rivelandoci che non siamo isolati, e che riguardi la dimensione dell’amore-gentilezza e compassione universali, può essere prezioso. Per alcune persone, le sostanze psichedeliche possono aprire la mente e far capire loro che la consapevolezza crea il mondo, che la realtà fisica viene creata dalla consapevolezza, e non l’opposto. Le sostanze psichedeliche possono mostrare che la realtà può essere piena di luce e di aspetti umoristici, che esistono dimensioni profondamente trascendentali e scale del tempo diversissime, dall’eternamente lento all’eternamente veloce. Possono anche portarci nelle dimensioni infernali, dove il dolore è enorme e apparentemente non esistono vie di uscita.
Robert Forte: Sembra che sia necessario qualcosa di molto potente per far capire che questo livello di realtà non è l’unico, soprattutto nel mondo occidentale di oggi, dove abbiamo sviluppato un grande controllo sul mondo materiale.
Jack Kornfield: Considero le sostanze psichedeliche estremamente utili per cominciare ad aprire le persone, e in certi stadi è possibile tornare a usarle con saggezza, ma con le restrizioni della “shila”. Tuttavia, è facile abusarne se non si fa attenzione a quello che in inglese si chiama il “set and setting”, cioè l’atteggiamento e il contesto. Per esplorare una parte di queste dimensioni, io, Stan e Christina Grof offriamo ritiri annuali che integrano la respirazione olotropica (in qualche modo simile all’esperienza psichedelica) e la meditazione buddista. I partecipanti sembrano rispondere molto bene a questa combinazione di pratiche.
Robert Forte: Una delle migliori applicazioni delle sostanze psichedeliche nei tempi moderni può essere quella del trattamento dei malati terminali. La ricerca su questi ultimi mostra che l’esperienza psichedelica illumina il processo della morte e diminuisce la paura nei suoi confronti.
Jack Kornfield: Da ciò che ne so, questo lavoro ha un grande potenziale, soprattutto per coloro che non hanno fatto una disciplinata pratica spirituale. La pratica spirituale è finalizzata, in vari modi, a prepararci alla morte. Entrando deliberatamente in un processo di morte-rinascita, possiamo dissolvere l’illusione di un io separato, accedendo ad altre dimensioni della consapevolezza al di là del nostro limitato punto di vista. In tal modo, impariamo a vivere in modo più saggio.
Ma se non abbiamo mai imparato queste cose, forse le sostanze psichedeliche possono aiutarci a prepararci alla morte, in quanto aprono molte porte negli stadi iniziali della pratica spirituale. Tutto ciò che porta ad aprire il cuore e la mente, aiutandoci a lasciarci andare, è benefico.
Robert Forte: A un convegno tenutosi nella Harvard Divinity School nel 1985, lo psicologo Dan Brown ha fatto una distinzione tra l’estasi e “l’enstasi”, nell’ambito di una discussione sulle sostanze psichedeliche. L’estasi sarebbe il volo dell’anima dal corpo, “il viaggio estatico dell’anima attraverso le varie regioni cosmiche”, laddove lo yoga ricerca “l’enstasi”, o la concentrazione finale dello spirito e “la fuga dal cosmo” [Eliade, 1958, 1964]. Cosa pensi di questa distinzione, a proposito dell’esperienza psichedelica e della meditazione?
Jack Kornfield: La meditazione buddista va dall’enstasi all’estasi. Nel buddismo esistono alcune pratiche puramente estatiche, ma di base noi non cerchiamo di “alzare il volume”, bensì di sintonizzare bene colui che riceve. Esercitando una sacra attenzione, possiamo risvegliarci ai livelli più profondi del corpo e della mente, e – al di là di essi – alla natura non-duale della realtà. Tutte le dimensioni della consapevolezza diventano raggiungibili grazie a una consapevolezza “ben sintonizzata”. È possibile entrare in dimensioni in cui il corpo è colmo di luce, si sperimentano l’estasi e un rapimento straordinario, e si viene catapultati in tutte le sfere del paradiso e dell’inferno.
Robert Forte: Pensi che il buddismo e la psichedelia continueranno a incrociare la propria strada, nel futuro?
Jack Kornfield: Considero la psichedelia una delle aeree più promettenti della moderna ricerca sulla consapevolezza. Non sarei sorpreso se a un certo punto avvenisse un proficuo matrimonio tra alcune di queste materie sacre e un addestramento o una pratica sistematici, come quelli che ho appena descritto. Tale matrimonio dovrà basarsi sulla comprensione e il rispetto delle antiche leggi del karma; inoltre, dovrà avere radici nella compassione, nella virtù, in un cuore aperto, in una mente addestrata e nelle leggi della liberazione. Dati questi elementi, la combinazione potrebbe essere molto fruttuosa.
Le sostanze psichedeliche: un aiuto o un ostacolo?
L’esperienza psichedelica è solo un bagliore di una genuina visione mistica, ma un bagliore che può diventare più maturo e profondo grazie a vari tipi di meditazione in cui le droghe non sono più utili o necessarie. Quando hai ricevuto il messaggio, abbassi il telefono. Le droghe psichedeliche sono dei semplici strumenti, come il microscopio, il telescopio e il telefono. Il biologo non sta seduto con gli occhi permanentemente incollati al microscopio; se ne distacca e lavora su ciò che ha visto.
Alan Watts, scrittore, 1962.
Devi ricordare, inoltre, che l’esperienza è sicura (nel peggiore dei casi, alla fine sarai la stessa persona che eri all’inizio), e che tutti i pericoli da te temuti sono inutili creazioni della mente. Che tu faccia esperienza del paradiso o dell’inferno, ricordati che è la tua mente a crearli. Evita di aggrapparti all’uno o di scansare l’altro. Evita di imporre il gioco dell’ego sull’esperienza.
Timothy Leary, Ralph Metzner e Richard Alpert, 1964.
Il fine – non lo si ripeterà mai abbastanza – non è un’esperienza religiosa, ma una vita religiosa. E riguardo quest’ultima, le “teofanie” psichedeliche possono bloccare una ricerca con la stessa facilità – se non più – con cui la favoriscono.
Huston Smith, scrittore, studioso delle religioni, 1976.
Ho trovato anche questo:
Il Buddhismo occidentale sarà psichedelico
di Paolo Vicentini
fonte:
L’incontro fra gli insegnamenti del Buddha e la cultura occidentale contemporanea ha dato luogo a reciproche fecondazioni, ma anche a possibili fraintendimenti, uno dei quali è sicuramente costituito dal rapporto fra sostanze psichedeliche e buddhismo.
Da un punto di vista storico la questione del rapporto tra sostanze psichedeliche e buddhismo non si era mai posta fino ai nostri tempi. L’ultima delle cinque regole di condotta morale, che sono a fondamento del codice di comportamento sia monastico che laico del theravada, una delle forme di buddhismo più vicine agli insegnamenti delle origini, vieta espressamente l’uso di alcol e droghe in quanto elementi offuscanti per la mente. Anche le numerose scuole del buddhismo mahayana, dove l’importanza assunta dalla figura del praticante laico ha comportato l’alleggerimento delle severe regole di condotta del buddhismo monastico antico, hanno sempre mantenuto fermo questo precetto, tutt’al più chiudendo un occhio solo nel caso dell’alcol. Certo si potrebbe cavillare sul significato di termini come “droga” o “offuscante” e sostenere la capacità di certe sostanze di acuire, anziché oscurare, la chiarezza della mente, ma questo non muta il fatto che storicamente non si è mai dato nel buddhismo l’uso di un qualsiasi tipo di sostanza, naturale o artificiale, volta a favorire il processo di maturazione e di risveglio spirituale. E ciò sebbene, almeno teoricamente, la cosa non fosse impossibile, vista la priorità data nell’insegnamento buddhista alla nozione di espediente o abile mezzo (upaya) rispetto alle normative morali e dottrinarie, priorità che ha raggiunto il suo apice nel buddhismo mahayana, in cui è ammesso l’uso da parte del maestro di qualsiasi stratagemma sia ritenuto utile a condurre l’allievo al risveglio. Perché dunque non considerare le sostanze psichedeliche come degli upaya allo stesso titolo degli espedienti di altra natura?
L’interrogativo è emerso in tutta la sua complessità a partire dagli anni Sessanta, quando gli insegnamenti buddhisti hanno cominciato a percorrere in maniera sistematica le strade del mondo occidentale e contemporaneamente l’uso delle sostanze psichedeliche ha assunto proporzioni mai prima raggiunte. Tuttavia, già a partire dagli anni Cinquanta, soprattutto grazie al movimento beat americano e alle strette relazioni instauratesi nel dopoguerra fra Stati Uniti e Giappone, comincia a diventare sempre più marcata l’attenzione per le dottrine buddhiste, in particolare per quelle zen, abbinata all’uso di droghe. Elemento catalizzatore dell’interesse per il buddhismo è l’opera divulgativa dello studioso giapponese Daisetsu Teitaru Suzuki, stabilitosi a New York nel 1953, che attraverso numerose pubblicazioni, conferenze e lezioni accademiche, pone le basi del futuro successo dello zen in America. Famosi rimangono i suoi seminari alla Columbia University nel 1955, cui partecipano personaggi di primo piano della beat generation statunitense quali John Cage, Neal Cassady, Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Ma anche altri illustri precursori della controcultura americana come Gary Snyder, Philip Whalen e Alan Watts sono influenzati dall’insegnamento di Suzuki. Ha così origine quello che, per usare una nota classificazione di Alan Watts, può essere definito lo zen beat, ossia una versione dello zen che ne esalta gli elementi spontaneisti e libertari, l’insofferenza verso ogni genere di convenzione, di istituzione e di norma, rendendo la pratica incline all’arbitrio e all’anarchia. Lo zen beat si pone dunque in naturale contrapposizione allo zen square delle scuole giapponesi ufficiali rinzai e soto, ligio alla severa disciplina, ma anche alla rigida gerarchia autoritaria e al supino formalismo propri della pratica zen monastica. Anche la predilezione per la marijuana o il peyote, tipica dei seguaci dello zen beat, è in realtà, come l’abuso di alcol, un elemento di sfida all’autorità costituita più che strumento di una consapevole ricerca spirituale.
Se negli anni Cinquanta l’interesse per il buddhismo è prevalentemente teorico, letterario e artistico, limitato ad un gruppo ristretto di intellettuali anticonformisti, negli anni Sessanta anche grazie all’influsso di questa élite si verifica un deciso orientamento verso la pratica, che coinvolgerà strati della popolazione sempre maggiori, specie in ambito giovanile. Si assiste alla nascita di una vera e propria controcultura in cui le dottrine buddhiste si coniugano con il pacifismo, l’ecologia, il movimento di liberazione sessuale, l’antipsichiatria, la psicoterapia, la lotta contro la vivisezione, ecc. Come era già accaduto negli anni Cinquanta, però, il buddhismo non viene indagato obiettivamente e praticato per come realmente si manifesta nei paesi e nelle culture di provenienza, ma è piuttosto utilizzato come mezzo utile a scalzare i fondamenti di una cultura dominante considerata oppressiva, come luogo mitico a cui far riferimento per delineare il proprio ideale sociale, culturale e spirituale alternativo ai valori e ai modelli di vita occidentali ufficiali. Accade così, per esempio, che le dottrine zen negli anni Sessanta e Settanta divengono il presupposto per giustificare la non-violenza ed il pacifismo, l’opposizione alla guerra del Vietnam e l’astensione dal servizio militare. Ben diversa era la realtà originale giapponese, dove nel corso della prima metà del secolo tutta la gerarchia monastica zen, tranne qualche sporadica eccezione, era stata non solo favorevole, ma attivamente partecipe alla politica imperialista ed espansionista del governo nipponico, arrivando perfino a giustificare la barbara strage di Nanchino (1937).
La diaspora di lama tibetani verso l’Europa e l’America, seguita all’invasione cinese del Tibet (1954-59), produce a partire dagli anni Sessanta un ulteriore impulso nella diffusione in Occidente degli insegnamenti del Buddha, rendendo nota una tradizione prima velata da un alone di mistero e deformata dalle invenzioni teosofiche. Rispetto alla generazione beat che l’aveva preceduta e che del buddhismo aveva apprezzato soprattutto le tendenze atee, iconoclaste e anti-autoritarie, la generazione hippie degli anni Sessanta e Settanta mostrerà sempre maggiore attenzione per gli aspetti apertamente spirituali e religiosi. Al viaggio esteriore (drop-out dalla società dei consumi e dalla american way of life per vivere on the road) si assocerà quasi sistematicamente il viaggio interiore, effettuato mediante pratiche meditative di tipo tradizionale (yoga, zazen, mantra, ecc.) e mediante l’ausilio di sostanze psicotrope (il trip psichedelico). Dopo i libri The Doors of Perception (1954) e Heaven and Hell (1956) di Aldous Huxley, che fungono da battistrada, appaiono opere come The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead (1964) e The Politics of Ecstasy (1968) di Timothy Leary e The Center of the Cyclone (1973) di John Lilly, in cui si accostano con disinvoltura le esperienze psichedeliche all’illuminazione buddhista. Molti degli attuali insegnanti occidentali di buddhismo cominciano ad avvicinarsi alla pratica buddhista proprio grazie ad alcune di queste esperienze. Ciò stimola all’interno del mondo buddhista un dibattito sui rapporti fra viaggio psichedelico e pratica meditativa che vede contrapporsi, fin da subito, due tipi di reazioni: uno di totale rifiuto di qualsiasi rapporto fra sostanze psicotrope e buddhismo e un altro molto più possibilista se non dichiaratamente favorevole. Lama Anagarika Govinda (al secolo Ernst Lothar Hoffmann) può essere considerato un illustre rappresentante del primo atteggiamento, mentre Alan Watts del secondo. La loro scelta non è casuale, in quanto essi hanno in comune numerose caratteristiche. Entrambi sono occidentali, entrambi hanno svolto una importante funzione di divulgazione e introduzione in Occidente di alcune eminenti tradizioni buddhiste (theravada e tibetana l’uno e zen l’altro), ma soprattutto entrambi hanno avuto diretta esperienza sia della pratica buddhista sia di alcune sostanze psichedeliche (in particolare LSD) e sono perciò tra le persone più indicate per esprimerne un giudizio comparativo. Eppure le loro opinioni in merito sono nettamente divergenti.
Secondo Govinda,
mentre la meditazione produce una “intensificazione” della coscienza, l’uso dell’LSD ne provoca una “dilatazione” con una conseguente atomizzazione delle immagini, tipica anche della cosiddetta arte psichedelica. Ammesso inoltre (ma di ciò non vi è prova, dice Govinda) che le esperienze indotte da stupefacenti assomigliassero alle esperienze meditative, esse non comunicherebbero nulla a chi è spiritualmente impreparato, il quale non saprebbe interpretarle e integrarle nella coscienza individuale. La differenza principale consiste però nel fatto che mentre la meditazione “unendo e integrando tutte le facoltà della psiche ci conduce al centro del profondo della nostra coscienza”, l’LSD ci riduce invece ad uno stato di completa passività, ad esser preda delle nostre emozioni e delle nostre fantasie in una pericolosa frammentazione dell’attenzione e della personalità. La meditazione ci aiuta a creare un nucleo interiore “che fa di noi esseri spirituali consapevoli e ci eleva al di sopra della cieca natura (del caos e del samsara)”, mentre l’LSD ci decentra e rende strumenti delle mutevoli e polverizzate immagini del nostro subconscio, “spettatori passivi di uno psicofilm che si svolge senza la nostra partecipazione” e che soffoca la creatività tipica degli stati meditativi. Il ritrovamento di questo centro interiore, situato tra i due poli della coscienza individuale e di quella cosmica, è per Govinda indispensabile affinché l’individuo tuffandosi nel profondo mare della coscienza universale comune a tutti noi non ne venga inghiottito per sempre. In qualche misura il suo pensiero sembra qui ricordare più che il buddhismo la psicologia analitica di Jung, con l’importante differenza che lo psichiatra svizzero, pur consapevole dei rischi che ciò comporta, ritiene indispensabile immergersi nell’oceano dell’inconscio collettivo affinché la coscienza individuale possa trovare il proprio centro nella sintesi fra le due polarità costituita dal Sé.
Watts può vantare rispetto a Govinda una maggiore esperienza con le sostanze psichedeliche sia in termini di quantità che di qualità, avendo egli assunto LSD sotto lo stretto controllo di un gruppo di ricerca psichiatrica o autonomamente in varie condizioni fisiche e psichiche, ed avendone studiato gli effetti molto più diffusamente e particolareggiatamente.[ii] La sua opinione è che questi prodotti possano essere d’aiuto per l’esplorazione della mente allo stesso modo che un telescopio o un microscopio per l’esplorazione dell’universo. Come tali strumenti sarebbero relativamente inutili senza una guida e una preparazione appropriate, così le sostanze psichedeliche dovrebbero essere assunte con attenzione ed in presenza di un supervisore qualificato (ad esempio uno psichiatra o uno psicologo che abbia egli stesso sperimentato la droga) pronto a fornire un punto di contatto con la realtà come è definita socialmente. In un certo senso, esse si comportano alla stregua di un mezzo di trasporto, il quale può condurre più velocemente a destinazione se correttamente guidato, ma anche ad uno schianto fatale per il conducente se guidato con imperizia o distrazione.
E’ soprattutto il contenuto dell’esperienza di Watts con LSD ad essere molto diverso rispetto a quello registrato da Govinda. Watts rileva come il suo primo ‘viaggio acido’ fu tutto sommato abbastanza interessante e divertente, ma per niente simile ad “un’esperienza mistica”. I suoi sensi assunsero le caratteristiche di un caleidoscopio e il mondo divenne un immenso arabesco multidimensionale di colori così vividi da risultare splendenti. Ogni cosa apparve insolitamente piena di significato ed esilarante, ma nulla di più. Questo, spiega Watts, era accaduto perché egli non aveva ancora imparato a dirigere le sue domande e la sua attenzione sotto l’effetto della sostanza. Ben più significativi furono gli esperimenti successivi, grazie ai quali concluse che l’effetto dell’LSD è quello di annullare il normale apparato di selezione dei dati sensoriali, in base a cui scegliamo solo quelli ritenuti più significativi per i nostri scopi esistenziali. Ne risulta che tutti i particolari del mondo circostante diventano egualmente pieni o privi di significato. Privi di significato perché nulla è più significativo di qualcos’altro, pieni di significato perché nulla ha più bisogno di rimandare ad altro per assumere rilevanza e tutto risulta significativo di per sé. Evidenziando la relatività dei criteri di selezione dei dati sperimentali la sostanza dà modo anche di riorganizzarli secondo altri criteri e modelli, creando variazioni e apparenti distorsioni del campo percettivo. In questo modo è accresciuta non solo la consapevolezza che ciò che abitualmente consideriamo il mondo esterno in realtà è strettamente interrelato con lo stato della nostra mente, ma anche che conoscere il mondo è in realtà allo stesso tempo conoscere se stessi: cessa la rigida dualità di soggetto e oggetto e non vi è più un osservatore distaccato che ha delle sensazioni, poiché si comprende che noi siamo quelle sensazioni e nulla più. “Diventare le proprie sensazioni e non provarle, genera il senso più strabiliante di libertà e sollievo”, scrive Watts. Si annulla anche il dualismo di causa ed effetto, i quali si svelano come polarità di un unico processo che accade non a me o da me, ma per se stesso. La sensazione predominante è dunque quella di un mondo costituito non di cose o sostanze ma di processi, e che l’agente dietro ogni azione sia ancora un’azione. Solo per convenzione noi consideriamo ogni momento del processo come causato da quello precedente e causa di quello successivo. In realtà ogni momento del processo manifesta la pienezza del tempo, dello spazio e del significato, senza dipendere da nulla di passato o di futuro per esistere o avere un senso. Ogni presente è l’eterno e ogni evento è senza perché.
Watts riassume l’effetto prodotto delle sostanze psicotrope sulla propria coscienza in quattro fondamentali caratteristiche. 1) Concentrazione sul presente. La nostra abituale attenzione compulsiva per il futuro diminuisce e diveniamo consapevoli dell’importanza e dell’interesse di quanto sta accadendo nel presente. 2) Consapevolezza della polarità. La vivida comprensione che stati, cose ed eventi che abitualmente riteniamo opposti sono in realtà interdipendenti, come i poli di un magnete. Riusciamo così a vedere l’interiore unità di cose esteriormente differenti: sé ed altro, soggetto e oggetto, destra e sinistra, maschile e femminile, corpo solido e spazio, figura e sfondo, organismo e ambiente, santo e peccatore, ecc. Ogni elemento dell’esistenza è definibile solo grazie all’esistenza del suo corrispondente polare e a mano a mano che questa consapevolezza cresce diviene più intensa la percezione che noi stessi siamo complementari rispetto all’universo che ci circonda, cosicché la nostra esistenza implica quella di qualsiasi altra cosa. La sensazione è di essere qualcosa che l’intero universo sta producendo e, contemporaneamente, che l’universo intero è qualcosa che noi produciamo. 3) Consapevolezza della relatività. Comprendiamo di essere legati ad una infinita gerarchia di processi e di esseri, dalle molecole agli esseri umani, nella quale ogni livello è soggetto alle medesime infinite relazioni. Questo può farci percepire che tutte le forme di vita non sono che innumerevoli e mutevoli variazioni di un singolo tema, e la vita e la morte aspetti di un unico processo. 4) Consapevolezza dell’energia eterna. Il sentimento di unità con l’immensa energia, definibile anche come divinità, che permea e costituisce nella sua essenza e nelle sue manifestazioni l’intero universo.
Chi abbia anche solo un po’ di dimestichezza col pensiero buddhista ritroverà in questa visione della realtà fatta di eventi impermanenti e interdipendenti alcuni dei suoi più noti capisaldi dottrinari, tanto che a Watts sorse il legittimo dubbio che la sostanza chimica non producesse in lui altro che una vivida percezione della sua concezione della realtà. Ma questo dubbio può essere smentito non solo dal fatto che queste esperienze suggerirono talvolta a Watts qualche cambiamento del suo pensiero precedente, ma anche dal fatto che esse rientrano a pieno titolo nella normale tipologia degli effetti provocati da sostanze psichedeliche. In una delle più documentate e penetranti indagini sulle manifestazioni degli stati mistici,[iii] sia spontanei che indotti, Michel Hulin ha in particolare evidenziato tre caratteristiche comuni nel cambiamento della visione della realtà prodotta dalle droghe psichedeliche: dissoluzione dello schema corporeo (ossia dell’abituale identificazione dell’io con il corpo), allontanamento dei riferimenti spaziali e temporali, cancellazione della barriera che separa il soggetto dall’oggetto. Ma Hulin fornisce anche un quadro interpretativo in grado di spiegare le apparenti incongruenze fra il resoconto di Govinda e quello di Watts. Lo studioso francese infatti conferma l’opinione di Watts che la nostra percezione ordinaria della realtà non sia per nulla un’attività disinteressata. Essa al contrario è soggetta alla parte più utilitaristica della mente umana, che seleziona nella natura solo ciò che ha valore per la sopravvivenza, valore stabilito in buona parte dal passato remoto della specie e veicolato attraverso la cultura e l’educazione. L’individuo perciò decifra il mondo sensibile prevalentemente in termini di scopi, pericoli, ostacoli e percorsi, ed è abituato a suddividere ogni elemento della realtà in piacevole o spiacevole, benefico o malefico, significativo o insignificante, muovendosi eternamente nel gioco dell’accogliere o del rifiutare. Attorno a questa percezione delle cose si solidifica il senso dell’io e dell’identità vissuta non in interrelazione ma in opposizione al mondo esterno. La sostanza psichedelica, favorendo una sospensione di questa visione utilitaristica e dualistica della realtà, può produrre così l’apparenza di un vero e proprio reincantamento del mondo tipico dell’esperienza mistica presente nelle maggiori tradizioni spirituali, accompagnato dalla sensazione prevalente che tutto è bene e tutto è perfetto da sempre e per sempre, e in cui non vi è più bisogno di contrapporsi a nulla ma solo di ‘lasciar essere l’essere’. Tuttavia ciò accade solo quando il ‘viaggio’, come nel caso di Watts, abbia esito positivo. Perché mai allora alcune esperienze indotte dalla droga finiscono in uno stato molto più prosaico, come descritto da Govinda, quando non addirittura in un angoscioso terrore che rasenta la follia?
La spiegazione è tutto sommato abbastanza semplice. Tipica di ogni reale esperienza spirituale è la radicale spoliazione dell’ego, l’abbandono di ogni ‘avere’, di ogni sete di appropriazione della realtà. Ma questa spoliazione implica un lavoro su di sé, un percorso a volte lungo e faticoso di trasformazione interiore, dei propri impulsi, delle proprie emozioni, delle proprie abitudini mentali radicate. Pretendere di giungere alla meta senza compiere alcuna tappa intermedia è alquanto imprudente e spesso assai pericoloso, perché si può non avere la maturità spirituale necessaria per affrontare una visione della realtà che è potenzialmente liberatrice. Come nel mito di Icaro, l’impaziente desiderio di alzarsi troppo in alto rispetto alle proprie attuali possibilità può portare ad una caduta rovinosa, da cui sarà poi difficile risollevarsi. A questo riguardo, Platone riporta un antico insegnamento di coloro che istituirono i misteri greci secondo cui “colui che arriva all’Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato giacerà in mezzo al fango” (Fedone, 69c). Fuor di metafora, la sostanza psichedelica può produrre sì un abbassamento della nostra abituale modalità di comprensione della realtà, utilitaristica e separativa, ma non riesce ad impedire che la resistenza prodotta dalle forme canoniche di coscienza di sé crei un clima di angoscia e tensione generato dalla relativa immaturità del soggetto. Egli infatti si trova scisso tra il desiderio di scoprire nuovi orizzonti e quello di aggrapparsi al saldo e rassicurante io fisico, psicologico e sociale. Come nel caso di Govinda, egli vorrebbe avventurarsi nell’oceano dell’inesplorato mondo interiore ma sulla barca costituita dalla propria identità personale ordinaria. E’ da questa contraddizione che traggono origine e alimento le situazioni di paura ed angoscia provocate dalla droga. Lo stato mentale che apre le porte all’angoscia è dato dall’impressione che il reale cominci a sfuggire, che ogni senso di identità venga meno e si sia così inghiottiti, addirittura divorati e smembrati in un vasto vuoto senza fondamento e senza senso. Se tutto ha uguale significato allora tutto ne può essere visto come egualmente privo. Se ogni identità è in realtà momento di un unico immenso processo che accade da sempre, allora tutto può essere considerato come insipidamente indifferente e senza scopo. Se il reale è in continuo divenire allora non c’è più un terreno solido su cui posare il piede e su cui far affidamento. Se l’io non è più il soggetto distaccato che percepisce e manipola una realtà oggettivamente passiva, può nascere la sensazione di venire sopraffatti da un meccanismo mentale che come apprendisti stregoni abbiamo incautamente scatenato ma che non siamo più in grado di padroneggiare. Lo stesso Watts, pur esperto meditante, ad un certo punto provò una sensazione di timore di fronte a tutto questo. “Per un attimo mi sentii perso in uno spazio vuoto, spaventoso, senza fondamenta, insicuro. Eppure dopo un po’ mi abituai a questa sensazione, per quanto strana fosse”. Ma cosa accadrebbe a chi non avesse la maturità e la preparazione sufficiente per “abituarsi”, per abbandonare la presa dell’ego e della sua volontà di tenersi saldamente aggrappato alla percezione abituale? Presi nella morsa dell’impossibilità di accettare la realtà che si spalanca di fronte, e al tempo stesso di tornare indietro ad una rassicurante dimensione individuale di cui si è scoperta l’illusoria convenzionalità, si rischierebbe di piombare nella disperazione. L’angoscia diventerebbe allora la naturale reazione difensiva dell’io di fronte al crollo di tutto ciò che gli conferiva stabilità e consistenza. Una reazione che potrebbe condurre fino al collasso psichico, perché come ricordava lo psichiatra Ronald Laing: “mistici e schizofrenici si trovano nello stesso oceano, ma i mistici nuotano, mentre gli schizofrenici affogano”.
E’ per questo motivo che Watts riteneva consigliabile compiere il ‘viaggio’ alla presenza di una guida esperta, e sosteneva che in ogni caso l’esperienza psichedelica potesse essere solo il barlume di una genuina esperienza mistica, un barlume che andava poi sviluppato e approfondito attraverso pratiche spirituali più consuete, in cui le droghe non fossero più necessarie né utili. “Ricevuto il messaggio, si può riappendere il telefono”. E la più recente analisi del rapporto intercorso fin dagli anni Sessanta fra buddhismo e sostanze psichedeliche dimostra in effetti che il telefono è stato riappeso da tutti gli attuali insegnanti buddhisti occidentali che nella loro giovinezza furono indotti ad avvicinarsi al buddhismo dall’uso di droghe.[iv] Non solo. Quasi nessuno di essi ne consiglia l’assunzione per aiutare o anche solo stimolare il percorso spirituale. Infatti, anche senza voler considerare i pericoli in cui possono incorrere i consumatori poco avveduti, vi è una obiezione di fondo che scoraggia la maggior parte degli insegnanti dall’utilizzare aiuti psichedelici nella pratica buddhista: non è tanto importante l’esperienza del risveglio, quanto piuttosto il percorso che si è fatto per realizzarla. Se il risveglio è ottenuto attraverso una pratica che produce la trasformazione dell’intera personalità, esso diventa parte integrante del nostro modo di essere e della nostra vita, diventa cioè la nostra vera natura. Ma se è semplicemente il risultato estemporaneo dell’uso di qualche droga, esso non produce alcun reale cambiamento nella nostra esistenza, se non la possibilità, del resto non automatica, di venir stimolati ad intraprendere un vero percorso di realizzazione spirituale. Come nota giustamente Hulin, l’uomo che assume droga può essere considerato alla stregua di un attore che sulla scena interpreta il ruolo dell’illuminato, identificandosi con esso al punto di dimenticare per la durata della rappresentazione la mediocrità della sua vita reale. La droga lascia intravedere all’uomo ciò che ‘potrebbe’ diventare, ma lo fa nascondendo l’immensa distanza che lo separa ancora da questa condizione. Per un certo lasso di tempo egli si limita dunque a vivere a credito, illudendosi di essere ciò che non è.
Non solo le esperienze psichedeliche non producono di per sé una reale liberazione, ma possono esservi addirittura d’intralcio nel momento in cui queste suscitassero attaccamento, ossia un atteggiamento possessivo che porta ad interpretare la vita spirituale in termini di conquista, controllo e padronanza. Se è vero che ogni tipo di pratica ascetica è soggetta a questi pericoli, ciò sarà tanto più vero per quelle sostanze che promettono l’illuminazione a facile prezzo. Ogni liberazione conseguita in questo modo non potrebbe essere altro che un’ulteriore prigionia, dato che la liberazione non può essere contenuta in alcun particolare stato della mente, in alcuna particolare esperienza. Il risveglio spirituale si realizza nel buddhismo solo nel momento in cui vediamo e accettiamo profondamente noi stessi così come siamo, la realtà così com’è. Perché la vera liberazione appartiene ad ogni stato della mente, ad ogni esperienza, ad ogni momento dell’esistenza.
Paolo Vicentini
Lama Anagarika Govinda, Illuminazione attraverso la «porta di servizio»? Considerazioni sulla «dilatazione della coscienza» ad opera delle droghe, in Id., Riflessioni sul buddhismo, Mediterranee, Roma 1985, pp. 111-115.
[ii] A. Watts, Psychedelics and Religious Experience, in “California Law Review”, vol. 56, n. 1 (gennaio 1968), pp. 74-85; Ordinary Mind is the Way, in “The Eastern Buddhist”, vol. 4, n. 2 (ottobre 1971), pp. 134-146; La nuova alchimia, in Beat Zen & altri saggi, Arcana, Milano 1973, pp. 97-120; La gaia cosmologia. Avventure nella chimica della coscienza, Ubaldini, Roma 1980.
[iii] M. Hulin, Misticismo selvaggio. L’esperienza spontanea dell’estasi, red edizioni, Como 2000.
[iv] A. Hunt Badiner, edited by, Zig Zag Zen: Buddhism and Psychedelics, Chronicle Books, San Francisco 2002.
BOX
Lama Anagarika Govinda ( al secolo Ernst Lothar Hoffmann) Nato a Kassel, in Germania, nel 1895, dopo aver combattuto sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale riprese gli studi in Svizzera, all’università di Friburgo. Iniziò a interessarsi di buddhismo a Capri, dove frequentava esuli europei e artisti americani, e nel 1928 si imbarcò alla volta di Ceylon, dove studiò per un breve periodo meditazione e filosofia buddhista con il monaco theravada tedesco Nyanatiloka Mahathera, che gli diede il nome di Govinda. Spostatosi in India, mentre si trovava a Darjeeling nel 1931 incontrò Tomo Geshe Rimpoche, un lama gelukpa che, a suo dire, gli conferì una iniziazione. Tra il 1947 e il 1948 guidò una spedizione nel Tibet occidentale, finanziata da una rivista di viaggio, in cui incontrò un lama di nome Ajorepa Rimpoche che, sempre stando al suo resoconto, lo iniziò all’ordine kagyu. Di ritorno dal Tibet, Govinda fissò la sua residenza nel Sikkim e negli anni Sessanta la sua casa a Kasar Devi divenne una tappa obbligatoria per i ricercatori spirituali, tra cui Gary Snyder e Allen Ginsberg nel 1961. Dalla pubblicazione, nel 1966, della sua autobiografia The Way of the White Clouds (tr. it. La via delle nuvole bianche, Ubaldini, Roma 1981) la sua fama crebbe costantemente ed egli dedicò i vent’anni che precedettero la sua morte, avvenuta nel 1985, a tenere conferenze in Europa e negli Stati Uniti.
Box
Alan Watts, Nato a Kent, in Inghilterra, nel 1915, dimostrò un precocissimo interesse per il buddhismo ed in particolare per lo zen. Redattore, già attorno ai vent’anni, della rivista Buddhism in England (oggi The Middle Way) della Buddhist Lodge di Londra, poi denominatasi Buddhist Society, si trasferì negli Stati Uniti nel 1938. Qui dapprima praticò lo zen sotto la guida del maestro Sokei-an Sasaki e poi si laureò in teologia al Seabury-Western Theological Seminary (Illinois). Ordinato sacerdote nel 1945, fu per cinque anni cappellano della Chiesa episcopale presso la Northwestern University. In seguitò abbandonò il sacerdozio e nel 1951 traslocò in California dove divenne uno dei guru della beat generation e della controcultura americana. Professore e per qualche tempo direttore dell’American Academy of Asian Studies di San Francisco, frequentata anche da Gary Snyder, fruì di borse di studio dell’università di Harvard e della Fondazione Bollingen. Divulgatore instancabile, scrisse venticinque libri, ideò e condusse due serie televisive per la National Educational Television, partecipò a più di cinquecento programmi radiofonici, tenne circa mille conferenze. Fu insignito del dottorato honoris causa in teologia dall’università del Vermont per i suoi meriti nello studio comparato delle religioni. Morì nella sua casa californiana nel 1973.
Paolo Vicentini