<<Lasciamo quindi che sia la Cronica a narrare i fatti …>>
Cronaca di come Annibale Bentivoglio fu fatto prigioniero e liberato dalla prigione, e poi ucciso e vendicato; composta e scritta da messer Galeazzo Marescotti de’ Calvi. Proemio.
Molti autori latini e greci, dall’inizio del mondo fino ad oggi, con grandissima diligenza e operosità si sono affaticati a scrivere e a fare ampie trattazioni di fatti e gesta di uomini valorosi, narrando le loro vicende, dall’esito più o meno felice, per conferire a loro notorietà e fama luminosa, e additarli agli illustri principi antichi e moderni di ogni nazione; e anche a quelli che per il loro valore si sono innalzati, dalla loro bassa condizione iniziale, ad una condizione di prosperità, affinché i ricordi di così grandi fatti non muoiano e scivolino del tutto nell’oblio; e affinché gli uomini valorosi, che vengono al mondo di generazione in generazione possano trarre diletto dallo studiarli, e non vivano nell’ozio e senza alcun frutto, come le belve, ma studiando e leggendo quegli autori, possano imparare le virtù e ricevere i buoni esempi e i buoni insegnamenti di condotta morale, scritti e citati nei loro volumi.
E in seguito, grazie all’insegnamento di quelli, divengano magnanimi e virtuosi, con il desiderio ardentissimo di rendersi simili ad essi, con fama luminosa; o almeno di essere utili alle loro patrie e alle proprie repubbliche, per essere benamati e tenuti cari dai propri cittadini, allontanando ogni atto violento e proprio di un tiranno, con animo forte nel mettere sempre a repentaglio la propria vita e i propri beni per la libertà della propria patria.
Dunque io, Galeazzo Marescotti de’ Calvi, per il fatto di essermi dilettato continuamente a leggere, studiare e trascrivere molti autori, come devono fare gli uomini virtuosi, i quali volentieri amano la virtù e desiderano onore al mondo, temendo sempre la vergognosa infamia, spinto da un vivissimo desiderio di migliorarmi, passando di virtù in virtù, e soprattutto dopo che io ritornai da uomo nella mia patria (dopo aver combattuto molti anni sotto il comando dell’illustrissimo principe Signore e Conte Duca Francesco Sforza), nella quale mi sposai nell’anno 1440; e così vivendo tranquillo e in pace, accadde un fatto di tanta importanza, che mi scosse profondamente. E fu quando all’improvviso giunse a Bologna la notizia che Francesco Piccinino aveva imprigionato con l’inganno Annibale Bentivoglio e i suoi parenti Malvezzi nella rocca di San Giovanni, cosa biasimevole e penosa per tutto il popolo bolognese, e che fu di tale importanza in quel tempo, che appena lo si può raccontare, e fonte di maggior dolore, come qui di seguito brevemente narrerò.
E non già per brama di gloria o per mia fama personale, ma affinché non vada perduta la memoria di una così bella impresa compiuta con pochi uomini e in breve tempo.
Narrano le croniche che un tempo ormai lontano,
quando comandavano i Visconti di Milano,
a tener Bologna v’era un malandrino,
quello che chiamatasi Francesco Piccinino.
Era questi a capo di fanti e cavalieri,
che spadroneggiavano ne’ borghi e ne’ quartieri:
la città in silenzio quieta sopportava
mentre nei palazzi qualcuno gia tramava.
…
Francesco Piccinino figlio del …Capitano Niccolò Piccinino, il quale in quel tempo era come Signore di Bologna, per quanto rimanessero operanti i Signori Anziani e altri organi di governo, per dare l’apparenza esteriore di libertà.
…
Giovani ed anziani di nobili casati
coll’arme meditavano di rendersi affrancati,
quando il Piccinino con un vile imbroglio
catturò in ostaggio Annibal Bentivoglio.
Dunque bisogna sapere, come è vero, che nell’anno 1442, la vigilia di San Luca, a Bologna furono fatti prigionieri il nobile e valoroso Annibale Bentivoglio, Messere Achille Malvezzi e suo padre Gaspare Malvezzi, per opera di Francesco Piccinino.
Costui, che era infermo nel corpo e nell’anima, decise di andarsene da Bologna a San Giovanni in Persiceto, e con belle parole mostrò di gradire la compagnia dei suddetti Annibale, Gaspare e messere Achille, i quali, fidandosi, lo accompagnarono.
E così il giorno seguente giunsero a Bologna notizie di come fossero tutti e tre trattenuti nella rocca di San Giovanni …
…
Secco venne l’ordine dal Duca di Milano:
“Sia portato Annibale alla Rocca di Varano.
Sia tenuto in ceppi, guardato da’ famigli,
sia questo ad esempio a Bologna ed ai suoi figli!”
…
Poi, la notte successiva, fece prelevare in segreto i tre prigionieri dalla suddetta rocca, e li fece condurre in Lombardia, e nel Parmense. Annibale fu messo nella rocca di Varano; messere Achille nella rocca di Pellegrino, e Gaspare a Val di Taro.
…
Fu tentata più volte la via diplomatica, attraverso solenni ambascerie, al Duca di Milano, Filippo Maria, e al Capitano Niccolò Piccinino, … ma … poco o nulla si poteva sperare in una loro liberazione. E così passò quell’inverno.
…
Giunse per ventura da Borgo San Donnino
a recar novelle un umile stagnino,
disse d’un Signore, un nobil Cavaliero,
un bolognese illustre tenuto prigioniero.
La nova fu in segreto portata in un palazzo
e quivi raccontata al prode Galeazzo
che a un folle suo disegno repente pose mano
per espugnar di notte la Rocca di Varano.
…
Venuta la primavera, nel mese di maggio (credo fosse il 10, del 1443), verso l’ora di cena, io Galeazzo Marescotti tornavo a casa, e per caso mi imbattei in un valoroso giovane, il cui nome era, ed è tuttora, Genesio dal Borgo San Donnino, il quale veniva allora dal luogo ove era prigioniero Annibale; e aveva sulle spalle una borsa e una lancia, poiché ancora non aveva preso un alloggio. Ed egli incontrandomi, mi fece grandi feste, e poi mi saluto segretamente da parte di Annibale. Io lo ringraziai molto, e lo invitai anche con me a cena; ma lui declinò l’invito, e andò via. Io giunsi a casa mia pensando sempre alla venuta di costui, che mi raccomandò molto, in segreto, Annibale.
…
Ora, dopo aver mangiato e continuando a pensare a Genesio, meditai di chiedergli informazioni riguardo al luogo del paese, della rocca e delle guardie, e se avesse in animo di tentare con me l’impresa di liberare Annibale di prigione. E riflettendo molto sopra queste cose, trascorsi quel giorno, che era domenica, e la notte seguente.
Giunto poi il nuovo giorno, decisi di rivelare i miei propositi … mi feci raccontare e descrivere con ordine la topologia del paese, e come era difesa la fortezza, e in quale modo fosse possibile andarvi. E alla fine, avendo compreso che il suo animo era retto e leale, decisi di chiedergli di partecipare a quell’impresa che poi compì coraggiosamente e fedelmente con me e con gli altri, e che qui di seguito descriverò; e così incominciai.
…
Con quattro ardimentosi il prode Galeazzo
nel buio della notte lasciò il suo bel palazzo,
con funi ed armi bianche sortiron dalle mura
e a piedi s’ inoltrarono nella grande pianura.
…
Egli (Genesio) , comprese le mie parole, dopo aver valutato i pro e i contro, decise di seguire la mia volontà … trovato Tideo Marescotti, mio carissimo fratello, e parlato con lui … si offrì subito di essere uno dei compagni.
…
… il primo tentativo andò a vuoto per l’esitazione di un nostro compagno il quale, stimando eccessivo il pericolo, non volle partecipare alla prima scalata (non ne riporto il nome per rispetto, e perché egli è mio compare).
…
E così, stando qualche giorno a Bologna in preda allo sconforto, vidi di nuovo, per caso, Genesio, che era rimasto in Lombardia la prima volta che eravamo andati per scalare [la rocca]. Vedutolo, lo chiamai, e condottolo in disparte incominciai a lamentarmi con lui della codardia e della viltà del mio compare … .Alla fine fu d’accordo con me. E di nuovo chiamato il mio valoroso e prode fratello, Tideo Marescotti, e l’altro mio coraggioso compare, Michele di Marino da Loiano (o da Pisa), ed un certo Giacomo Malavolta di Bologna, tutti e cinque riuniti a mie spese, insieme partimmo da Bologna il 3 giugno 1443, e ci mettemmo in viaggio.
…
Dormendo in mezz’ai boschi, marciando con la luna
passarono il confine, guadaron fiumi in piena,
trascorsero tre giorni da che furon partiti,
l’alba del quarto giorno li vide già appostati.
…
E come piacque a Dio altissimo, dal quale provengono tutte le grazie, tutti e cinque, al terzo giorno, giungemmo sani e salvi sopra la rocca di Varano, intorno alle 23, con molte fatiche, e affanni d’animo e di cuore. E giunti là, sopra un boschetto folto di castagni, io iniziai a perlustrare con attenzione il luogo, ogni parte del quale, grazie all’altezza del monte su cui ci eravamo fermati, si poteva osservare molto bene e con facilità.
…
Guardaron di lontano il lugubre maniero,
e a sera si disposero a percorrerne il sentiero,
furtivi e silenziosi e nella notte fonda
ben presto si portarono sott’al camin di ronda.
…
Veduta e considerata bene la natura del luogo, e la sua topologia nei particolari, venuta la notte, chiamai il mio caro fratello e i fedeli compagni che riposavano sopra il prato verdeggiante e compatto. Nel nome di messere Gesù Cristo discendemmo dal monte, fatto prima voto a lui e a messere san Giacomo di Galizia di non fare del male ad alcuno che fosse nella rocca, se non per legittima difesa, ma di risparmiarli, per quanto fosse possibile…
…
Lanciaron con gli arpioni le funi sulle mura
poi lesti vi s’issarono senz’ombra di paura,
la scòlta sopraffatta fu resa in’offensiva:
l’allarme resto in gola alla guardia che moriva.
…
Iniziammo quindi la scalata con grandissimo affanno e timore; e fu tanto il favore di Dio altissimo e della buona fortuna che, dopo esserci affannati e affaticati, alla fine, con l’aurora, entrammo. Primo fui io, Galeazzo Marescotti; il secondo fu il mio valoroso fratello Tideo; il terzo Genesio, prode e coraggioso; il quarto fu il mio ardito e saggio compare Michele; il quinto e ultimo fu Giacomo Malavolta. … . Compiuti la scalata e l’ingresso sopra il muro io, sospettando che in una torretta vicina ci fossero alcune guardie, subito vi corsi per sorprenderle e zittirle. Ma Dio volle che non ce ne fosse nessuna, perché il luogo era di per sé assai sicuro. … . Discendemmo poi nel cortile, e qui stabilimmo di aspettare la luce del giorno, che già stava per apparire, e la stella Diana lo manifestava chiaramente. Ma non sembrando opportuno fermarci così allo scoperto, cominciammo a provare quasi tutti gli usci, se ce ne fosse qualcuno aperto, dove potessimo nasconderci per esaminare le ultime pericolose fasi del nostro progetto. E trovato aperto l’uscio della torre (dietro il quale non dormiva nessuno), decidemmo di nasconderci lì … .E per dirigerci all’impresa con animo più saldo, tirammo le scale di legno e di corda sopra il muro, e le nascondemmo segretamente in una stalla della rocca, con il proposito di vincere o di morire come uomini valorosi. … il Castellano, che chiamava dalla torre costruita sopra la volta, sotto la quale, come è detto, eravamo nascosti noi. Alla sua domanda rispose uno che si chiamava Marchese, e subito venne giù dove eravamo noi. … . Giunto dunque in mezzo a noi quello sventurato Marchese, io Galeazzo (Dio me lo perdoni) lo presi per la gola, e lo tenni tanto stretto, che quasi morì tra le mie mani; ma poi, lasciatolo, e tranquillizzatolo un poco, credetti che tacesse per paura di noi.
Ma non poté trattenersi, anzi ad alta voce cominciò a gridare: <<Castellano, sei ingannato!>>. Gli altri servi, udito il forte urlo, gridarono tutti: <<Cosa c’è? Cosa c’è?>>. Allora quel mio impavido e coraggioso fratello, gettatosi fuori dall’uscio, salì la scala, che portava alla torre, e io, lasciando Marchese nelle mani di Michele e dei compagni, lo seguii. Essi furono costretti a ucciderlo, per il fatto che non voleva tacere; e poi mi dissero che il mio compare Michele, a cui era rimasto in mano un mio coltello che avevo usato prima, quando tenevo Marchese per la gola, con un solo colpo gli staccò la testa dalle spalle. Così Marchese morì per sua colpa, e non perché noi avessimo in animo di ucciderlo: Dio lo perdoni.
…
Qual furie scatenate i cinque assalitori
ben presto ebber la meglio sui pochi difensori,
poi con il castellano preso sul giaciglio
coll’arme in pugno vollero vedere il Bentivoglio.
…
Prima poi che mio fratello giungesse alla piccola porta della torre, vi giunse un altro servo, di nome Antonio, che la voleva chiudere. Mio fratello, guardatolo con volto truce, lo intimorì, e lo fece indietreggiare: e così contro la sua volontà entrammo nella torre. Là Antonio si mise a fuggire su per le scale, ed io lo braccai inseguendolo, perché non suonasse la campana, o facesse altro per cui a noi potesse derivare un pericolo. Tideo corse presso i letti, sempre con la spada snudata, e legò, lui solo, tutti quelli che trovò, come fossero agnelli castrati! Io inseguivo Antonio, e per quanto lo chiamassi e gli promettessi che non gli avrei fatto del male, e molte al tre cose, non mi volle dare ascolto; anzi, veloce e scattante salì sull’ultimo solaio della torre; e già, imbracciata una piccola bombarda con tutto l’affusto, era venuto presso la tromba della scala per gettarmela addosso, quando io nello stesso tempo vi giunsi, e impauritolo con un grido e col roteare della spada, lo feci cadere disteso per terra, e a mala pena mi trattenni dall’ucciderlo! Ma per la promessa fatta a Dio e a messere San Giacomo, lo aiutai a rialzarsi e lo feci discendere davanti a me giù per le scale: e così vidi che il prode Tideo aveva legati tutti i prigionieri, che erano sette tra grandi e piccoli. I grandi erano cinque, i piccoli due. Ad aiutarlo erano già venuti Genesio e Giacomo Malavolta. Michele era impegnato a tenere con la forza un certo uscio tirato verso di sé, affinché le donne che erano in una camera lì vicina non potessero uscire fuori a gridare. … . E lasciati i prigionieri in custodia a mio fratello e ai compagni, subito corsi all’uscio della sua camera; e, con voce sommessa, facendo stridere forte il catenaccio, mostrando di essere uno dei suoi domestici, aprii la parte di fuori, aspettando che egli aprisse la sua di dentro. Alla fine, poiché egli credeva che io fossi il suo servo Antonio, mi chiamò, domandandomi notizie: e così interrogato, gli risposi, anche se confusamente, in modo che si decise ad aprirmi. Io, che riguardo a tutto il resto ero già sicuro, facendo poco conto di lui, che sapevo essere solo, sentendo che l’uscio si apriva perché gli era stato tolto il catenaccio, , datagli una spinta, mi avventai addosso al Castellano, che si chiamava Guglielmo; e urtatolo senza tanti complimenti, lo presi, intimorendolo tanto, che non mi si oppose né con parole né con azioni. E condottolo alla presenza di Annibale, che sedeva nel letto e ancora non si era alzato, glielo consegnai come prigioniero, dicendogli: <<Prendi, Annibale, io ti dono costui per prigioniero; fatti coraggio: tu sei salvo e libero dalla prigionia in cui ti avevano posto i tuoi nemici! Io Galeazzo, con mio fratello e certi compagni, che tu qui vedrai, ti abbiamo soccorso e liberato da questa misera condizione, nella quale ingiustamente tu eri stato ridotto: Dio ti darà ancora la sua grazia!>>.
…
Furon levati i ceppi al nobile Signore
che incredulo ammirava quegli uomini d’onore,
poi, preso come ostaggio il pavido guardiano,
in sette abbandonarono la Rocca di Varano.
…
Non c’è da meravigliarsi se egli fu lieto. Sceso giù in fretta dal letto con le catene che teneva alle gambe, andò a una finestra. Io , per ultimare la gloriosa impresa, preso il Castellano sotto braccio, gli dissi:<<Vieni con me, andiamo alla camera dove dimorano le tue donne; e farai in modo che esse si calmino, poiché gridano>>. … .Giungemmo poi tutti nella camera di Annibale; e radunati tutti lì, tutti furono stupiti del fatto che con così poche persone (cinque compagni) avessimo vinto e imprigionato una tanto numerosa servitù. Noi, che eravamo venuti riforniti di tutto ciò che ci sarebbe potuto servire, presi una lima ed un piccolo scalpello, liberammo dalle catene il magnifico Annibale. Nota che, fino a qui, io non gli ho attribuito tale titolo, perché da qui in avanti le sue opere saranno magnifiche; e anche per questa buona sorte [che gli tocco] tale titolo gli fu attribuito dai nostri amici pensando a quanto valorosi noi fummo; perché io credo, a dire il vero, che non se ne troverebbero altri cinque di tal genere, tanto che l’illustrissimo signore Duca di Milano, Filippo Maria, ne parlava, lamentandosi della sua sorte, poiché nei suoi tempi non ne aveva acquistati di simili. … decidemmo di partire e di ritornare in patria, a Bologna, … . E, tornando, decidemmo di sfidare la nostra sorte nell’affrontare i nemici Bracceschi. Parlatone insieme al Magnifico Annibale, egli non sembrava d’accordo, perché gli pareva impossibile che potessimo ottenere ciò che volevamo contro i nemici; e diceva a sostegno della sua tesi che il conte Alvise si trovava sul territorio di Bologna con quattromila cavalieri e due mila fanti; che Francesco Piccinino era a Bologna, e teneva nelle sue mani il palazzo con cinquecento cavalieri sotto il comando di Piero da Cassine e di altri Conestabili. E oltre a questo ricordava il grande pericolo della rocca (o castello) di porta Galliera, fortissimo e ben rifornito di uomini e munizioni; a guardia di esso era preposto il Tartaro da Bettona, uomo assai esperto e coraggioso, con cinquecento fanti.
…
Egli tuttavia voleva andare a Milano, e affidarsi al Duca.
Io. Un po’ turbato, gli risposi che egli non prendeva una decisione giusta, e che, se io e i miei compagni avessimo creduto questo, non ci saremmo certo sobbarcati l’incarico di andarlo a liberare di prigione, perché fosse poi di nuovo ricondotto in un’altra prigionia.
Parlammo poi a quattr’occhi, e finalmente egli fu d’accordo con noi nel venire in patria, e nel lasciare che la sorte seguisse il suo corso. E così alle due di notte, condotto con noi il Castellano ed un suo nipote, e quell’Antonio, che ho già ricordato; e comandato agli altri e alle donne che tacessero, partimmo, promettendo prima a loro che, se fossero state tanto audaci da gridare, avremmo ucciso il Castellano e gli altri, e ce ne saremmo andati con Dio; se invece avessero taciuto, li avremmo trattati bene, e poi li avremmo rimandati a casa sani e salvi: e così facemmo.
…