Vi posto uno scritto del M°Tokitsu al riguardo.
Qui di seguito alcuni estratti della trascrizione dell’allocuzione del Maestro Tokitsu: "Il BUDÔ, al di là delle barriere culturali", presentata il 14 marzo 1998 al Taïkaï di Parigi.
La nozione di dô
Definire il budô per mezzo dei suoi connotati d’austerità e severità, oppure con la spiritualità dell’ascetismo è fuori posto. Budô significa letteralmente la via marziale. È necessario riflettere sulla pratica tecnica delle arti marziali (bu) in rapporto con la nozione di via (do).
Nel Giappone di oggi, dove la modernità è molto apprezzata, una parte dei giovani ha come una reazione allergica quando si parla di dô. Personalmente, ritengo che la via non sia espressione ne di arcaicità ne di misticismo: la via è il tempo della vita, dalla nascita fino alla morte. Ognuno percorre gli alti e bassi della via, che non si impone alla coscienza e nella quale, col tempo, è facile perdersi. Il concetto di via presuppone l’esistenza di una direzione o di un obiettivo.
Durante il corso della vita, l’idea di budô nasce quando alla pratica delle arti marziali si accompagna il desiderio di migliorare se stessi, la propria persona nella sua totalità. La possibilità di migliorare se stessi è presente in tutte le culture, anche se il modo di intendere questo miglioramento da parte dei giapponesi mi sembra essere diverso da quello degli europei. Anche se questa differenza non appare immediatamente, mascherata dall’idea di progressione, ritengo che il problema più importante, che un occidentale deve affrontare volendo praticare il budô, sia mettere in pratica il concetto di via (dô).
La questione del budô non si pone dunque in termini uguali per i giapponesi e gli occidentali. Qui di seguito cercherò di precisare gli ostacoli che debbono essere superati per una reciproca comprensione.
La trasmissione del budô da parte dei Giapponesi
Esaminiamo le difficoltà o i problemi che i maestri giapponesi devono affrontare quando cercano di trasmettere il budô agli stranieri che vogliono costruire la loro pratica.
Quali sono i problemi, espliciti e impliciti, che incontrano i maestri giapponesi di budô?
Una delle difficoltà più importanti è la comunicazione delle tecniche corporali del budô collegate ad aspetti spirituali. I maestri giapponesi, per essere veramente compresi, sono obbligati a relativizzare il loro concetto della vita, mettendo in qualche modo in discussione la loro visione del mondo. Non è una cosa facile.
Tutti sanno che per avanzare nella pratica del budô sono necessari concentrazione, volontà, convinzione, in sostanza uno spirito immutabile…. per poter essere perseveranti durante gli anni di pratica. La gran parte dei maestri attinge l’energia necessaria per nutrire la pratica del budô dalla volontà di ricerca della perfezione. Questa tensione ideale, anche se non è cosciente, nasce da una pratica che ricerca uno stato di perfezione, un valore radicato nella società giapponese rappresentato dal sincretismo dell’immagine del Budda e da quella degli dei shintoisti. Essa comporta un’intuizione che fonde il mondo umano con l’universo cosmico. Per questa ragione i giapponesi hanno la tendenza a considerarla come un valore universale e presumono che cosi venga considerata anche da chi appartiene ad una cultura diversa. Il problema è questo.
(...)
Il problema del budô per degli adepti stranieri
Esaminiamo ora alcuni problemi che gli adepti stranieri, in particolare occidentali, devono affrontare.
Per i giapponesi la via (dô) riguarda tutta la durata della vita. La nozione di budô comporta una tensione ideale orientata verso il miglioramento della propria persona, nella sua totalità, per mezzo della pratica marziale. Gli occidentali capiscono questa espressione ma non le attribuiscono lo stesso significato dei giapponesi.
L’elevazione della qualità umana per mezzo del budô ha un’origine buddista e shintoista: un uomo può raggiungere lo stato – divino – di Budda e confondersi con il dio di un tempio.
La differenza con la cultura cristiana, dove la distanza tra uomo e Dio è insormontabile, è evidente: elevando il proprio valore umano, ogni uomo ha la possibilità di cambiare la qualità del proprio essere raggiungendo un livello che si confonde con un’idea di divino.
Il discorso filosofico e l’etica delle arti marziali giapponesi o del budô si fondano su una concezione buddista e shintoista del mondo e dell’universo, dove l’assoluto non esiste ed ogni cosa è relativa ad un’altra: il Dio-assoluto è assente in quest’universo. Conosco alcuni maestri giapponesi di fede cristiana, ma quest’ultima non impedisce a loro di essere sensibili in modo buddista e shintoista all’energia universale.
L’idea di autoformazione, basata su questo modo di concepire il mondo e su questa forma di sensibilità, è centrale nel budô. Il presupposto che ciascun uomo sia capace di aspirare alla perfezione percorrendo la via fa si che lo sviluppo di questo concetto, nell’ambito di prospettive culturali diverse, sia in qualche modo un prolungamento della generosità della logica buddista: cancellare se stessi facendo nascere un’opera nuova.
Alcuni ricercatori occidentali definiscono il budô per mezzo dei tratti comuni osservabili nelle arti marziali di origine diverse ma la particolarità fondamentale del budô risiede nel concetto formativo piuttosto che nelle particolarità gestuali di tali discipline.
Cosi, come per i maestri giapponesi, questo modo di praticare il budô, pone gli adepti occidentali nella condizione di dovere, in qualche modo, mettere in discussione il loro modo di essere.
Anche se alcuni europei sembrano vivere, ancor più dei giapponesi, in un modo giapponese, non si tratta certo di scimmiottarne le abitudini. È importante non confondere, o peggio perdere, la propria identità ma al contrario è necessario rafforzarla vivendo intensamente ogni istante, qui e ora.
Accedere alla realizzazione del budô concepito in modo planetario determina, da questo punto di vista, un problema di differenziazione.
Ritengo che questa sia la difficoltà fondamentale per gli adepti del budô.
Una chiave per il budô
Il pensiero della via appare spontaneamente, quando la tensione ideale verso la formazione di se si associa alla pratica dell’arte marziale, alla progressione nel corso del tempo. In altre parole, laddove questa tensione non appare, la pratica può non comportare il pensiero della via e di conseguenza non si costituisce in budô. Il budô, in senso stretto, non identifica una particolare disciplina ma la sua qualità e il suo contenuto pratico. La pratica assidua del kendô, del karaté-dô, del jô-dô, del kyûdô... non significa praticare il budô. La pratica diventa budô quando comporta spontaneamente una tensione ideale verso l’autoformazione della persona nella sua totalità.
Il budô non costituisce un genere tra le discipline di combattimento, ma il modo come ci si impegna nella ricerca dell’efficacia in una disciplina dell’arte del combattimento.
La tensione verso la formazione di se, nel senso che ho esposto sopra, non è un’astrazione ma si basa su una concreta sensazione corporea che ogni essere umano può concepire, indipendentemente dalla propria cultura. Questa sensazione può essere definita come la chiave che consente di superare le barriere culturali aprendo la porta di una pratica profonda del budô.
Cos’è questa sensazione corporea? Nella lingua giapponese si esprime per mezzo della nozione di ki.
Penso che la sensazione corporea del ki sia comunemente presente nell’esperienza umana, anche se la forma interpretativa di questa sensazione varia secondo la cultura. Per esempio, il carattere logico è molto più sviluppato nelle lingue occidentali che nella lingua giapponese ma nelle lingue occidentali non esistono parole – e si tratta di una difficoltà maggiore di traduzione – che esprimano il concetto di ki. Nella lingua giapponese questo termine comprende le sensazioni e le impressioni misteriose, vaghe, intangibili che toccano qualche cosa nel fondo del nostro essere, che dipendono da una sensibilità probabilmente arcaica o riflessa. Questo insieme di espressioni difficilmente definibile con una parola è presente nell’esperienza quotidiana, la letteratura e le arti giapponesi, e si chiama ki.
L'esclusione dal vocabolario di una parola che definisce queste sensazioni ed impressioni mi sembra correlato allo sviluppo del carattere logico delle lingue occidentali. Il pensiero razionale si è verosimilmente sviluppato respingendo questa sensibilità.
La sensazione del ki, senza passare attraverso una traduzione con vocaboli equivalenti, deve essere pertanto captata nella pratica come ki. Ritengo che per possedere la chiave del budô sia necessario coltivare, per mezzo delle tecniche corporee di combattimento, la propria sensibilità al ki, facendosi guidare, in estensione e profondità, da questa sensazione.
(...)
Kenji Tokitsu