CONSIDERAZIONI
Dopo quasi 9 anni di Silat sono giunto a determinate conclusioni:
La prima riguarda il nome.
Molti chiamano quest'Arte, o la loro Arte, Pukulan. Anche chi si allena con me.
Il termine, nonostante all'inizio per me rivestisse un'importanza fondamentale - al punto da spingermi a gettare il mio tempo in estenuanti e memorabili polemiche con altri praticanti, alcuni dei quali ho avuto la possibilità di conoscere e con i quali sono in cordialissimi rapporti - è divenuto ora una questione di lana caprina.
Un mio precedente insegnante diceva di aver conosciuto solo 5 praticanti di Pukulan e che lui non fosse tra questi.
Il mio attuale insegnante ne parla solo su precisa domanda, preferendo concentrarsi sulla pratica e sull'Arte di 'pulire il diamante'.
"Se riesci a riempire un sacco di pietre e, colpendolo, spaccare sacco e pietre all'interno, allora sei un praticante di Pukulan. Io non ci riesco." Questo è ciò che mi dice. Un modo indiretto per far capire quanto dovrebbe essere difficile ritenersi tali.
Con gli anni e l'allenamento ho iniziato a comprendere sempre più quanto quello che facessi non fosse Pukulan, nonostante i miei impatti siano migliorati e il mio 'timing' aumentato.
In Indonesia si è soliti parlare del 'padi', il riso, usando la metafora della sua crescita con conseguente piegamento verso il basso come l'acquisizione di maggiore umiltà del praticante che dovrebbe procedere di pari passo con l'aumentare dell'esperienza.
Un'immagine poetica ma meno efficace dell'espressione 'misurarsi la palla' in voga dalle mie parti.
Le cose cambiano e oggi stili che non erano ritenuti Pukulan, o perfino derisi, lo sono misteriosamente diventati e persone che non si definivano praticanti ne sono diventati Guru.
Non sta a me valutare se si tratta più di furbi o più di illusi.
Vedo anche ragazzotti dare due pugnetti a vuoto in uniforme da Pencak Silat e credersi praticanti di Pukulan e sorrido ripensando a quando lo facevo anche io.
Ciò che conta sono gli impatti e la qualità dei movimenti, non come si decide arbitrariamente di chiamare ciò che si pratica.
La cosa più importante, ad oggi e al di là di questa questione di nome, è aver capito cosa praticassi e cosa no.
Nonostante gli anni di allenamento mi avessero fornito buoni strumenti di base, avevo poco chiaro in mente cosa fosse lo stile che stavo praticando e quale fosse il confine tra l'Arte e la sua interpretazione.
E' naturale, ogni Arte praticata reca in sé i limiti imposti dalle capacità di chi ce la trasmette, ma non solo, porta con sé il suo carattere, il suo approccio, il suo punto di vista.
E' una grande responsabilità.
Ogni insegnante è un filtro e, nel bene o nel male, diventa come un padre ed è noto: le mele non cadono mai troppo distanti dall'albero.
Sbaglia il praticante che si illude di comprendere l'Arte convinto di aver visto la 'verità', poiché chi dovesse decidere di trasmetterla porterà con sé la propria.
Ogni arte marziale è una strada la cui lunghezza si scopre lungo il percorso e resta principiante chiunque creda di conoscere scorciatoie o averne svelato il cammino.
Invito sempre i praticanti che si allenano con me a tener presenti queste considerazioni, a pochi giorni dall'ultimo incontro con il mio insegnante, che ogni volta riesce a mostrarmi quanto io sia ancora solo ai primi passi.
Altro che Guru e Istruttori...