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I Longobardi in Italia
Il popolo longobardo entra nella storia di quella che oggi è l'italia nel 568, anno dell'invasione (a dire il vero non troppo cruenta) di questi territori. Una fra le ultime popolazioni germaniche ad uscire dalla protostoria e ad entrare nel mondo della Romania, fatto di libri e di memorie immutabili, porta con se un autocoscienza ancora in divenire che si stabilizzerà definitivamente proprio durante i secoli di stanzialità italiana e che di questo punto di arrivo farà una meta voluta dal destino.
Aspetto spesso trascurato dalla storiografia italiana (almeno fino ad anni recenti) è l'identità di questa popolazione: spesso vista dal pensiero tradizionale come un corpo estraneo e distruttore rispetto alla civiltà classica, non in molti si sono curati di chi, invece, fossero questi uomini del nord, ultima migrazione di un popolo nella nostra storia e, quindi, ultimo apporto consistente sul piano etnico.
La principale fonte documentale a cui possiamo riferirci è l'historia longobardorum scritta da Paolo di Warnerfrido (noto come il diacono) dopo la fine del regno, a seguito della sconfitta da parte dei franchi nel 774. Questo colto ecclesiastico (fu fra i protagonisti della cosiddetta rinascita carolina) raccoglie e razionalizza quanto conosce della storia del suo popolo, attingendo sia alle scarse fonti scritte precedenti (ad esempio l'origo gentis longobardorum) sia ad un tessuto di narrazioni orali che ai suoi tempi doveva essere ancora vitale.
Il dipanarsi delle vicessitudini della gens longobarda nasconde al suo interno tematiche molto più antiche di quelle dell'epoca in cui venne redatta, da alcune l'autore prende esplicitamente le distanze definendole “ridicula fabula” come nel caso del mito di Gotan e Frea, in altre si possono leggere significati probabilmente ormai non coglibili da un colto uomo di chiesa, altre forse saranno state eliminate al momento della stesura.
La narrazione ci descrive i Longobardi come una popolazione originariamente nota come Winilli (probabilmente “cani furiosi” o “vittoriosi”) residente in quella che Paolo chiama l''Isola di Scania” identificata da molti, ma non da tutti, con la Scandinavia.
Di certo sappiamo che un nocciolo di quelli che poi sarebbero divenuti i Longobardi proveniva da quelle terre o dalle immediate vicinanze (l'etnogenesi nel periodo delle migrazione è un processo complesso e non ad una sola direzione ma è certo che nei “Longobardi” siano state assimilate più tribu' sottomesse o alleate), prova ne è il fatto della presenza di loro re (estranei pero' alle elencazioni italiane) nelle leggende sassoni e nord germaniche (ad esempio nel Beowulf).
Da queste terre i Winilli si sarebbero spinti verso sud-est in un movimento che li avrebbe fatti scontrare con diverse altre popolazioni. In uno di questi scontri, quello con i Vandali, avrebbero ottenuto il nome di Longobardi (inteso come “lunghe barbe”) da Gotan (Odino) in persona, tramite l'intercessione della sua compagna Frea.
Se Paolo sentì il bisogno, pur schernendosi, di raccontare tale origine è probabile che ancora due secoli dopo lo stanziamento nella cattolicissima Italia, la gens riconoscesse in quei miti la fondazione delle sue origini.
Durante queste prime pagine facciamo l'incontro di Aion e Ibor, la coppia di gemelli mitici che, coadiuvati dalla madre Gambara, guidano il popolo nella loro prima migrazione.
Essi appartengono ad una lunga famiglia di gemelli etnofondatori comuni a molte popolazioni indoeuropee, basti pensare a Romolo e Remo o a Hengst e Horsa (sassoni). La presenza della madre, insieme ad altri aspetti, ha fatto pensare che in origine per i Longobardi ci sia stato un periodo di paganesimo più legato al culto dei Vani ma poi, durante la migrazione, questo popolo abbia trovato in Odino/Wotan la sua divinità principale.
Altro aspetto interessante contenuto nell'historia è la citazione dei guerrieri cinocefali. In uno scontro in cui le forze avversarie erano numericamente superiori (cosa frequente in quanto i Longobardi, si diceva, erano nobilitati proprio dallo scarso numero) essi fingono, a detta di Paolo, di poter contare fra le loro fila dei guerrieri dalla testa canina, feroci belve temibili in battaglia. Alcuni studiosi, non ultimo Stefano Gasparri, hanno creduto di poterci vedere senza difficoltà un equivalente italico dei Berserker scandinavi. Il cane, ricordiamo, è stato un animale di fondamentale importanza nell'occidente medievale, era richiamato nell'originale nome etnico della popolazione e nei ritrovamenti archeologici dei primi anni italiani (specie nello spiccatamente tradizionalista nord-est) furono trovate sepolture umane affiancate da esemplari di levrieri di grandi dimensioni.
Il susseguirsi di azioni vittoriose da parte degli antenati di Paolo continua e inizia anche l'elencazione di re prima mitici e poi storici.
Uno fra questi, il primo e discendente da Aion, viene definito Ex genere Guingingus, ovvero della famiglia dei Gunghinghi, tale denominazione familiare nasconde una matrice linguistica comune con la lancia odinica Gugnir e ben si concilierebbe con la tendenza ben nota a definire i capostipiti etnici come discendenti dal dio monocolo. Se a questo aggiungiamo che il suo successore verrà scelto da egli stesso fra dei bambini abbandonati in base a quello che ne afferrerà la lancia e che (ancora in epoca storica il simbolo regale sarà la lancia) il quadro che se ne delinea è quello di una monarchia odinica per una popolazione che in tale divinità ricercava la propria origine.
Con il passare delle pagine l'italia si avvicina e a portare i Longobardi in quella che un tempo era stata la culla di Roma sarà un Re dal nome antico Alboino, latinizzazione di Albwin ovvero “amico degli elfi”.
Gli anni della sua gioventù in pannonia, ci lasciano intravvedere una popolazione profondamente legata alle sue tradizioni, tanto che il Re Auduino negherà al figlio il posto alla sua tavola, nonostante il valore dimostrato in battaglia, fin quando questo non avrà ottenuto “le armi” da un Re straniero (che nello specifico sarà il padre di un giovane condottiero ucciso proprio dallo stesso Alboino).
Con l'arrivo nella penisola la tendenza latina alla cronicizzazione, oltre al posizionarsi all'interno di uno scacchiere di analisti incrociati, porta la storia longobarda su un piano più certo, in contemporanea la progressiva cristianizzazione ne indebolisce progressivamente la percezione etnica. Numerosi elementi “residui” lasciano intuire che però il popolo ha continuato a nutrire uno spontaneo attaccamento alle tradizioni che avevano definito la loro identità lungo il periodo delle migrazioni, l'historia continua ad essere la principale fonte a cui riferirsi anche quando oramai narra le vicende dei Re italiani; basti pensare a come vengano tramandati toponimi di zone cimiteriali dette ad perticas dall'usanza di piantare alte pertiche sormontate da colombe di legno rivolte verso il luogo della morte di guerrieri mai tornati in patria (usanza di probabile ascendenza nomade).
Dal 568 il mito scompare e appare la storia, non priva di scorci su un passato fatto di simboli e pensieri magici, questo rende l'Historia longobardorum una lettura fondamentale per chi desidera ricercare tali radici in quella che poi sarebbe diventata l'italia.
Quanto segue è una riflessione personale su un passaggio dell'Historia che presenta, a mio parere, chiari rimandi tradizionali, ma che non ho mai trovato analizzati da nessuno.
Paolo ci racconta di come il bisnonno, prigioniero degli Avari, avesse tentato la fuga dal lontano est e si fosse diretto verso Cividale a piedi e senza guida.
A soccorrerlo lungo la strada giunse un lupo che, mantenendo le distanze, lo condusse lungo la via e lo lasciò solo esclusivamente quando Lopichis (questo era il nome del longobardo) tentò di colpirlo con arco e frecce per la fame. Solo e privo di guida quest'ultimo si accasciò al suolo dove si addormentò, in sogno gli giunse la visita di un uomo (non viene descritto) che gli indico la direzione da percorrere per ritrovare casa.
Quivi giunto potè solo constatare l'abbandono del tetto natio e la distruzione perpetuata dagli anni e dai rovi, all'interno delle mura ormai grande cresceva un orno, a cui Lopischis appese arco e faretra prima di riconoscere a se stesso di essere tornato a casa.
Un semplice racconto come questo letto con sguardo non tradizionale permette, a mio parere, di trovarvi riferimenti con un modo di pensare e di vedere il mondo ancora profondamente pagano. La figura del lupo guida e del misterioso uomo onirico non ricordano forse il Dio Guercio, con i suoi lupi e la sua tendenza ad apparire sotto mentite spoglie ai sui protetti? E ancora, perchè proprio un orno? Come mai Paolo si sente in dovere di raccontarcelo e come mai un'informazione cosi spicciola supera tre generazioni mentre altro come i luoghi attraversati dal bisnonno o i nomi di persone che incontrò lungo il cammino sono andati perduti?
L'orno è, guarda caso, un albero della famiglia dei frassini e il suo nome latino è Fraxinus ornus, essenza arborea dai potenti significati in ambito nordico e la sua posizione al centro della casa con l'appendervi arco e freccia sembra richiamare il topos dell'albero al centro della reggia in cui Odino pianta la spada destinata a Sigurd nel carme dei Volsunghi.
........continua
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