Rispondo ad Enrico Ferretti.
Mi permetto di farlo da "coltivatore di forme", ma senza possedere la verità in tasca. Anzi, i dubbi sono superiori in numero e peso rispetto alle certezze; ma scriverò come se non avessi dubbi solo per comodità di scrittura e per rendere più agevole la lettura.
Il famoso attore e praticante marziale Bruce Lee sosteneva che le forme delle arti marziali classiche fossero inutili, poiché propongono soluzioni fisse a casi ideali che in un evento dinamico e con possibilità infinite come il combattimento non si riproporranno mai. A parer mio il “piccolo drago” aveva ragione.
A mio parere il “piccolo drago” aveva torto. Aveva torto perché ha assegnato alle forme una finalità che non hanno: le forme non “propongono soluzioni fisse a casi ideali”, ma, al contrario, propongono un esempio (questo sì “idealizzato”) delle possibili “tecniche” insegnate dalla scuola o maestro
[1].
Per questo concordo quando scrivi che le forme sono “astratte”, cioè che non hanno relazione con il mondo reale e tangibile, ma, pur se originatesi da esso, si sviluppano su un piano diverso e distinto. In questo senso, le forme non sono il “preludio” all'apprendimento di una arte marziale, ma ne sono un prodotto finale “astratto” e “idealizzato”.
Mi spiego facendo una analogia con le arti figurative e con il concetto di “capolavoro”. Per comodità cito da wikipedia :
“
Nelle opere artigianali e manuali il capolavoro è la prova di abilità a cui veniva sottoposto l'artigiano o l'operaio per acquisire la qualifica; detta opera, in genere un manufatto, doveva rispondere ai requisiti tecnici ed estetici richiesti dalla specializzazione e fissata dalle corporazioni, per gli artigiani in epoca tardomedievale, e dalle direzioni tecniche di settore per gli operai specializzandi, in epoca industriale.”
Questo valeva anche per le botteghe d'arte in senso stretto (pittura e scultura).
L'aspirante artigiano/artista, una volta apprese tutte le tecniche della scuola e le diverse modalità di impiego di esse e degli strumenti necessari per realizzarle, compiva il suo percorso di apprendistato creando un'opera che racchiudesse al suo interno sia le peculiarità tipiche di quella scuola, sia la sua personale abilità. Nel prendere visione del “capolavoro”, il maestro di bottega valutava quindi la capacità tecnica raggiunta dall'allievo per stabilire se meritasse di ottenere il titolo di artista/artigiano; per farlo, la sua valutazione non si basava “solamente” sulle abilità personali dell'allievo, ma anche (e spesso “soprattutto”) sulla sua capacità di saper rendere al meglio il bagaglio tecnico appreso, in modo da rendere riconoscibile all'occhio esperto la provenienza del suo insegnamento e la “tipicità” della sua scuola. Si badi bene, “all'occhio esperto”!
Proseguendo con la mia (ardita?) analogia, la forma altro non sarebbe che il “capolavoro” dell'artista marziale, il quale, al termine del suo percorso di apprendimento, mostra e dimostra la sua abilità e il suo livello di conoscenza raggiunto, “creando” una sua forma, che contenga elementi propri e personali, ma che conservi i tratti distintivi e tipici della scuola o linea di insegnamento.
Tutto questo per dimostrare di essere diventato un buon “combattente”?. No, affatto! Il “valore” di combattente ha altre strade per essere mostrato. Con la forma/capolavoro, l'aspirante ex-allievo vuol dimostrare di essere un degno rappresentante della scuola, il quale, capace di saper creare qualcosa di nuovo e personale ma senza “tradire” gli insegnamenti ricevuti, potrà aspirare ad insegnare e a tramandare, facendola evolvere, la sua “arte”.
In alcuni casi, infatti, capita che le forme trasmesse siano due: la prima è quella che potremmo chiamare “di scuola”, quella appresa direttamente dal maestro, a rappresentare la continuità con il passato; la seconda è quella creata dal ex-allievo, ormai diventato maestro, a rappresentare l'evoluzione.
Secondo questo mio punto di vista, la forma, e le “informazioni” in essa contenute, non sono/sarebbero dirette ai “novizi”, bensì solo a chi, con “occhio esperto”, sa quali informazioni prendere e, molto spesso, come eventualmente tradurle in “applicazioni”. A chi, cioè, avendo già un saldo bagaglio tecnico marziale “reale” (cioè di combattimento), è in grado di cogliere l'informazione astratta “nascosta” in quelle sequenze di movimenti e, quasi immediatamente, di saperle renderle “reali”, spezzettando e smontando la sequenza completa in tutti i suoi possibili componenti e assegnando ad ognuno di essi una interpretazione “traducibile” in qualcosa di realmente applicabile.
Il “novizio”, invece, non ha gli strumenti di conoscenza necessari e sufficienti per fare tale opera di “traduzione”. Infatti, l'insegnamento delle forme, senza il passaggio attraverso l'apprendimento dei fondamentali e di quanto necessario a costruire un “combattente” e senza la corretta contestualizzazione di determinate soluzioni, ha molto spesso prodotto interpretazioni fantasiose delle stesse, realizzando un insieme di “mosse e contromosse” decisamente fallaci, che però hanno trovato la loro ragione d'essere nell'autoreferenzialità dell'insegnamento ricevuto: la forma “insegna” questo; questo “funziona” perché ce lo insegna la forma.
Questi motivi, secondo me, sarebbero già sufficienti per poter affermare che lo studio delle forme non è un insegnamento fondamentale da impartire ai “novizi” nell'apprendimento di un arte marziale. Forse parallelo, ma non “fondamentale”.
Ma ci sarebbe anche il discorso sulla creazione di una “intelligenza corporea” da affrontare. Purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista...), non ho tempo di dedicarmi ad una ricerca bibliografica, seppur minima. Perciò mi affido ad un altro esempio, uno che conosco molto bene, sicuramente meglio delle arti marziali:
La domanda è: per imparare il basket, è meglio imparare i singoli esercizi uno per volta e poi proseguire con l'utilizzo in sequenze via via più complesse, o è meglio partire da una lunga sequenza di 115 movimenti preordinata per poi andare a ritroso per “scoprire” a cosa servono?
Saluti,
Zìxué.