Da un articolo del M°Toran.
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La misura nella scherma
Tempo, velocità e misura: la più importante è la misura, dicevano i vecchi Maestri. Ed anche i nuovi: i presupposti per la buona riuscita di un’azione schermistica non sono cambiati.
Se la misura è così importante, dobbiamo spiegare bene cos’è, e come si allena la capacità di gestirla.
Misura, nella scherma, è la distanza fra i due avversari che si fronteggiano. Una distanza variabile, che dipende da molti fattori. Non si misura in centimetri, ma si deve saper valutare, gestire, prevedere.
Una delle prime cose che s’imparano, nelle sale di scherma, è mettersi alla distanza giusta per portare un colpo. Da fermi (senza muovere le gambe, a piè fermo, come si diceva): cioè a stretta misura; con l’affondo, e quindi a misura giusta, o d’allungo, o d’affondo; camminando, vale a dire con un passo avanti seguito dall’affondo.
L’avversario è fermo, si valuta la distanza, si decide il movimento necessario.
Nei trattati classici le misure, per gli esercizi, sono tre: quelle sopra indicate.
In testi più recenti, salgono a cinque: nella spada, ma anche nella sciabola, si può colpire il bersaglio avanzato con un passo avanti e affondo; nella spada, in particolare, è utile esercitarsi nelle rimesse a misura molto ravvicinata, al limite del corpo a corpo.
Ma è bene rilevare che si tratta di distinzioni didattiche: la realtà è molto più complessa, e le sfumature sono infinite.
Per imparare a valutare (per iniziare ad imparare), si danno dei punti di riferimento, che bisogna prendere con una certa elasticità, date la possibile differenza fra le altezze.
Per la giusta misura, ad esempio, ai tempi di Masaniello Parise ci si metteva in guardia con l’arma in linea, e con le punte che superavano le cocce avverse di circa quattro dita.
Allora la guardia di base era più ampia, e l’affondo più corto: ci si muoveva meno velocemente, considerando non la moderna pedana, ma il terreno del duello, che non permetteva errori. Oggi, un buon riferimento iniziale, più pratico, potrebbe essere quello delle punte sulle cocce.
Un esercizio utile: si prende una certa misura, ad esempio mettendosi in guardia, arma in linea, con le punte che toccano le cocce avverse (o la piega del gomito, o il petto, o la metà della lama dell’altro...); poi ci si scambia di posto, tenendo l’arma in prima posizione. Uno dei due, a questo punto, dovrà ritrovare la misura stabilita, guardando l’altro (e non riferimenti vari sulla pedana). Infine, entrambi rimettono l’arma in linea, e verificano se la misura è di nuovo quella preordinata.
Cosa si guarda, in questo caso, per la maggiore efficacia? Una domanda interessante che meriterà una risposta approfondita, in altra sede.
In seguito, s’impara a mantenere una data misura: quando l’avversario (o il Maestro, o il compagno di esercizi) fa un passo avanti, si fa un passo indietro, o viceversa, per mantenere inalterata la distanza fissata. Uno si muove per primo, l’altro segue, prontamente, ma pur sempre dopo un certo tempo, seppure minimo: il tempo di reazione semplice ad uno stimolo visivo, circa due decimi di secondo.
Essenziale, per l’efficacia di quest’esercizio, è la verifica: chi guida (chi decide se e quando andare avanti o indietro) deve frequentemente fermarsi, e controllare se la distanza è rimasta la stessa. Altrimenti, è solo ginnastica per le gambe, ma non per la mente.
Mantenere una data misura: quale, e perché?
Se l’avversario avanza per toccare, non basterebbe starne lontano il più possibile? No, e per due buoni motivi.
Il primo è evidente: non si può arretrare all’infinito, perché il terreno, la pedana, è limitata. Conviene arretrare quanto serve per non prendere la botta, ma non di più.
Il secondo lo è un po’ meno: la botta non si deve prenderla, ma bisognerà anche metterla, e per farlo si deve stare abbastanza vicini. Quando l’avversario si ferma, o non ha l’iniziativa, conviene essere sufficientemente vicini da renderci pericolosi a nostra volta.
Già, ma quanto vicini, e quanto lontani?
Non è questione di centimetri, l’abbiamo già detto, ma di sicurezza.
Se l’altro parte, devo fare in tempo ad allontanarmi.
Lo spazio che mi serve dipende dalla velocità che lui ci mette a percorrerlo, e da quella che io ci metto ad arretrare: devo vederlo, reagire, e intanto lui si è avvicinato un po’; e devo muovermi all’indietro, per tenermi fuori portata quando tirerà il colpo.
Siamo già geneticamente attrezzati per “sentire” questo spazio, e questo tempo: dobbiamo solo adattarci allo strumento che prolunga il nostro braccio, ed essere molto attenti, per non lasciarci sorprendere.
Esercizio: il mio avversario tira una botta dritta al petto (in affondo, o con uno o due passi avanti prima dell’affondo, a scelta di chi tira il colpo), e poi torna in guardia, in atteggiamento di invito.
Io arretro quanto basta per evitarla (il minimo possibile), e “rientro” con una botta dritta, quando lui torna in guardia, sempre sull’invito: in questo esercizio non si deve parare.
Per riuscire a toccarlo, devo essere pronto a ripartire, e questo richiede equilibrio e buona posizione di guardia (gambe ben piegate); e devo arretrare il minimo indispensabile.
Devo farmi quasi sfiorare dalla sua punta, se sono bravo: se ho un ottimo “controllo” della misura. Il gioco può continuare all’infinito (ottimo allenamento per le gambe) se il primo, a sua volta, dopo aver tirato il colpo, arretra per evitare quello del suo compagno di esercizi, e si tiene pronto per “rientrare” a sua volta.
E così fino a quando uno dei due non sarà riuscito a toccare: in genere, quello che ha meglio conservato l’equilibrio e la distanza, ed ha ottenuto (lasciandosi avvicinare di più) che l’altro si scaricasse del tutto, convinto di toccare.
Stare lontano è facile, e istintivo. Stare vicino è più difficile: ci si deve addestrare a farlo.
Quando si diventa bravi, la misura si “sente”.
Si avverte nettamente la differenza fra la misura di sicurezza, o di controllo, e l’esser “dentro” la misura.
Nel corso dell’assalto di scherma, si “entra” e si “esce” dalla misura.
Quando si entra (la vera “giusta” misura: molto vicina a quella di Masaniello Parise), è per tempi brevissimi: per concludere con il colpo, o per tornare al sicuro dopo aver fatto una finta, o perché le condizioni trovate (atteggiamento, movimento dell’altro) non sono quelle sperate.
Se sono pronto ad entrare, perché ho preparato io la situazione, posso far partire immediatamente l’azione risolutiva.
Se non sono pronto, perché è l’altro che ha preparato, mi accorgerò con ritardo dell’opportunità, e difficilmente riuscirò a sfruttarla, se non lo avrà già fatto lui. Ritardo: come già detto, parliamo di un ordine di grandezza intorno ai due decimi di secondo, il tempo di reazione semplice.
Da qui, l’importanza dell’iniziativa, e della provocazione.
L’iniziativa è di chi avanza per primo; la provocazione efficace (invito, azione sul ferro, finta – col ferro o col corpo) è di chi entra in misura per sua scelta e iniziativa, o decide il momento in cui lascerà che l’altro (cui ha ceduto l’iniziativa) possa entrare.
Il controllo stretto (al limite dell’entrata in misura) permette una provocazione efficace.
Come ho già scritto altrove, da un punto di vista tattico le misure importanti sono due: quella di controllo, e quella di azione.
Fuori, e dentro: ma appena fuori, se il controllo è buono.
Ho chiamato “zona critica” o “punto critico” la zona di confine: dove funzionano le finte, per i vari usi che se ne possono fare (per colpire, scandagliare, bloccare, programmare l’altro, ecc.).
Un atleta esperto sa porsi al limite della zona critica, e restarci con tranquillità.
Da lì può tenere sotto pressione l’avversario, e punirlo con facilità e prontezza quando sbaglia: e lo fa muovere, più volte e nei due versi, per farlo sbagliare di più, e per interpretarne meglio possibilità ed intenzioni.
E se entrambi gli avversari sono esperti? Qui siamo nel vivo della scherma: i campioni prevedono, programmano, e scommettono.
Anche se, molto spesso, non si rendono neanche conto di farlo.
Prevedono: se parto per raggiungere il mio avversario, che è fermo, valuterò la distanza da percorrere. Ma, non appena mi muovo per raggiungerlo, lui potrà anche arretrare, rendendola più lunga; o avanzare, abbreviandola.
Se avanzo “a vedere”, cioè lentamente, l’altro può facilmente andar via.
Se attacco al massimo della velocità, l’altro può frustrarmi chiudendo la misura.
Se, però, gli ho dato i segnali giusti (più volte in precedenza, programmandone in qualche modo le risposte; o subito prima, ingannandolo sulle mie intenzioni alla partenza), posso prevedere quello che farà.
La certezza, però, non l’avrò mai.
Devo scommettere con me stesso che sarà così, e rischiare.
Se sarò determinato, capiterà spesso che l’azione sbagliata possa avere successo; se esiterò, potrò facilmente trasformare in errore l’azione giusta.
Perché? Provo a chiarire con un esempio. Se parto deciso in controtempo (entro in misura fingendo l’attacco, per parare l’uscita in tempo) ma l’altro non tira, io paro a vuoto e completo l’azione tirando il colpo, avrò buone probabilità, pur avendo sbagliato la previsione, di mettere a segno la botta: se l’errore non è dovuto alla maggiore intelligenza dell’altro, mi resterà il vantaggio dell’iniziativa.
Inoltre, se non mi ha fermato con una contraria (una finta in tempo, ad esempio), quasi certamente neanche lui ha previsto, e quindi il seguito è lasciato al caso, ed agli automatismi.
Se, invece, ho previsto giusto, ma esito entrando in misura, la mia esitazione potrà farmi parare in modo insufficiente, o darà il tempo all’altro di rimediare in altro modo.
Morale: se hai deciso, vai e non voltarti indietro.
In altre parole: quando si entra in misura, le azioni diventano a circuito aperto. Non c’è tempo per rielaborare il feedback (come nelle azioni dette a circuito chiuso). C’è un tempo per elaborare (misura lunga) e un tempo per agire (misura breve, o di azione).
Ora, possiamo approfondire un po’ qualche altro dettaglio.
Se devo parare, o devo colpire, l’efficacia del mio gesto dipenderà dalla velocità di entrambi.
E’ più difficile parare un colpo velocissimo, piuttosto che uno lento (a parte il cosiddetto “tempo falso”, che è un’altra cosa). Controllare significa reagire dopo aver visto (più in generale, dopo uno stimolo sensoriale), secondo un dato programma.
Nella scherma ciò porta spesso a muoversi nella stessa direzione dell’altro: se lui avanza, io arretro; e viceversa, perché anche chi avanza controlla, per attaccare dalla misura adatta (e dopo aver trovato le condizioni adatte).
Questo fa sì che la velocità relativa di un attacco, che è quella che conta, possa essere drasticamente ridotta, muovendosi rapidamente nella stessa direzione, arretrando.
Un arresto di spada (l’arma in cui la differenza di tempo apprezzabile è determinata dal cronometro, ed è minima: metà di un decimo di secondo) al bersaglio avanzato, ad esempio, può essere tirato con una certa tranquillità, se siamo bravi ad arretrare rapidamente: perché la velocità relativa del colpo in arrivo diventa molto bassa.
Addestrare l’allievo a questo è importante: a volte, la fretta di arrivare prima porta a tirare il colpo troppo presto, col braccio contratto.
Non si fa a tempo ad angolare, ad opporre correttamente, o a dirigere bene la punta.
Bisogna addestrare l’allievo a sentirsi tranquillo (se le gambe sono pronte) con la punta dell’avversario ben vicina al proprio corpo; o a tirare ad un bersaglio sufficientemente arretrato, col solo vantaggio di qualche centimetro: con velocità relativa prossima a zero, è più che sufficiente per evitare il doppio. Per ricercarlo, invece, conviene andare incontro all’avversario, sommando le due velocità.
Gli stessi principi si possono applicare alle parate, o agli attacchi. Richiedono anch’essi un controllo attento della misura, e quindi della velocità relativa: anche, ma non solo.
Se siamo di altezza e velocità diversa, la zona critica non sarà la stessa per entrambi (senza contare la profondità differente cui poter colpire, se vi sono anche i bersagli avanzati, che richiedono abilità particolari).
Posso sentirmi al sicuro ad una certa distanza, che però è troppo lunga per il mio avversario: per entrare in misura, lui dovrà avvicinarsi un po’ di più.
Sarò avvantaggiato se riuscirò a tenere il mio avversario fra le due distanze critiche, la mia e la sua: io sarò sempre al sicuro, lui sempre in pericolo.
Il costo maggiore, anche in termini di risorse mentali (l’attenzione ha un costo elevato), lo sopporterà lui: che avrà interesse a tenersi fuori dalla maggiore delle distanze critiche, o a superare con la massima rapidità l’intervallo in cui è il solo ad essere in pericolo.
A------------------------>B
A.......<-------------------B
Altezza e velocità, di entrambi, determinano le distanze critiche.
In genere, chi è più piccolo è anche più rapido, e in qualche modo compensa la differenza.
C’è però un altro fattore, molto importante, da prendere in considerazione: quello psicologico.<
Alla base di tutto, c’è la valutazione della distanza, che è fortemente influenzata dagli stati d’ansia.
Si tende a sentirsi sicuri da una distanza maggiore di quella necessaria, o semplicemente la si legge male: come quei bambini che disegnano le monete più grandi, se sono più poveri.
Riuscire a star tranquilli e rilassati, ma ben reattivi, a distanza ravvicinata, è una grande virtù: e bisogna lavorare molto e bene, anche su altri piani, per acquisirla o rafforzarla.
Appare chiaro, ora (me lo auguro, almeno), che la battaglia vera, preliminare, non si fa sul piano delle contrarie tecniche (io paro, tu fai la finta e cavazione), ma sul piano della misura.
Può accadere che entrambi, convinti di aver capito le intenzioni dell’altro, acconsentano insieme all’entrata in misura: a quel punto, si confrontano le azioni tecniche, e si vede chi ha previsto giusto.
Come al poker, insomma.
Più spesso, si entra in misura dopo una vera battaglia: vince chi ha potuto stabilire il tempo, il momento esatto dell’entrata in misura, quando l’altro non è pronto.
Dalla misura siamo arrivati al tempo: ma questo è un altro argomento, anche se strettamente legato al primo.