PARTE VI - dalla teoria alla pratica
Olivier non risparmiava particolari e esempi, invitando i presenti a chiedere se vi fossero domande, curiosità o dubbi. Anand e Walter aggiungevano qualche loro esempio o completavano il quadro generale sul footwork del Pukulan.
Passammo poi ai colpi principali e loro relative linee. Ogni colpo del Pukulan segue una linea precisa in base alla posizione o spostamento. Olivier illustrò i colpi eseguiti dalle posizioni sopradescritte. Alcuni seguivano la linea delle spalle, altri cercavano una ‘linea centrale’, intersecando le linee descritte a terra, altri seguivano una singola linea di tutto il corpo. I piedi indicavano alcune bisettrici, le ginocchia assecondavano diligentemente le direzioni dei piedi, le gambe ben piegate, mai ferme, variavano il livello e l’altezza con gli spostamenti e come due stantuffi erano il motore dell’intera macchina. Le spalle si allineavano ad altri angoli o al medesimo delle gambe e le braccia colpivano, si aprivano e scattavano verso il vertice di altri angoli. Leggere i movimenti, quel giorno, fu impossibile. Si intravedeva il senso, ma comprenderlo era tutt’altra cosa.
Per loro era tutto naturale, spontaneo e meccanico. Biomeccanica è il termine che più si può associare a quei movimenti geometrici. Non andava mai fuori asse, il bilanciamento era sempre equamente distribuito tra le due gambe, le posizioni salde pur esprimendo dinamicità.
Armonia, precisione e potenza erano mescolati con esperienza come se stesse bevendo un bicchier d’acqua. Praticammo alcuni colpi di base, ci venne spiegata la respirazione da seguire e come accompagnare i colpi con entrambe le mani. Spesso una era aperta, l’altra chiusa a pugno. Una faceva da supporto all’altra. Coordinare quel semplice gesto in velocità non era facile.
Olivier non era un marzialista qualunque. Presidente della sede di Amsterdam di una delle associazioni per la diffusione delle Arti Marziali Indonesiane più importanti al mondo, pluricampione di forme e esperto di più stili: Sebandar, Sera, Cimande, Cikalong. Olivier aveva vissuto a Java apprendendone l’idioma alla perfezione e conosciuto persone, luoghi e maestri a cui pochi occidentali era stato permesso accedere.
Fu il turno di Walter. Il suo fisico meno armonico rispetto a quello atletico di Olivier, la sua andatura dinoccolata, le sue leve lunghe non lasciavano presagire eguale eleganza nei movimenti. Ma nonostante accennasse semplicemente i movimenti, senza porvi eccessiva enfasi, si muoveva con altrettanta perizia.
Avremmo visto i primi ‘Jurus’.
Nelle arti marziali tradizionali vengono generalmente codificate tecniche all’interno di una sequenza memorizzata allo scopo di poter allenare, se da soli, i colpi, gli spostamenti e le posizioni.
Molte arti marziali hanno questo tipo di combattimento immaginario codificato che in italiano prende il nome di “forma”. Il corrispettivo di ciò che nel più famoso Karate in giapponese viene chiamato ‘Kata’, nelle arti marziali indonesiane prende il nome di ‘Jurus’. La versione indonesiana di queste forme, almeno nel Pukulan, è molto più breve di quelle della loro controparte cinese o giapponese. Per memorizzarle sono necessari pochi minuti. Per padroneggiarle sono necessari anni. Per comprenderle a fondo è necessaria una vita. Un breve Jurus contiene al suo interno centinaia di applicazioni e movimenti nascosti. Alcuni vengono spiegati, altri vanno cercati, altri interpretati e altrettanti intuiti. Il corpo apprende, il corpo insegna. Il cervello e i muscoli si mandano reciproci impulsi e comandi. Un continuo incessante scambio di informazioni e un esercizio psicomotorio, la ricerca del proprio centro, il proprio equilibrio. Eseguire un Jurus, anche lo stesso centinaia di volte, è illuminante in termini tecnici. L’intero corpo respira nei suoi movimenti codificati e ogni esecuzione è la scoperta di nuovi dettagli. La respirazione, lo sguardo, il ‘timing’ giusto, la possibilità di darvi ritmi diversi in base alla propria capacità di interpretazione e fantasia o in base al proprio stato d’animo attuale. Tutto ciò trasforma qualcosa di apparentemente automatico in qualcosa di vivo e pulsante. Uguale ma diverso.
Nelle arti marziali tradizionali, le ‘forme’ sono il cuore del sistema. Io provenivo da arti marziali e sport da combattimento che non annoveravano ‘forme’ nel loro programma. Non v’erano ‘forme’ nella Kick Boxing, non ve n’erano nel Ju Jitsu Metodo Bianchi che praticai per qualche mese, non ve n’erano in quel po’ di Capoeira, fu una tortura memorizzarne una di Taekwondo, non ve n’erano nel Jeet Kune Do. Bruce Lee non ne aveva gran considerazione. Non ve n’erano nel Kali-Escrima. Alcuni stili le hanno inglobate nel loro programma. Ma si tratta di una giapponesizzazione. E’ un espediente didattico. Le uniche forme che avessi mai appreso erano quelle del Taiji Quan studiato con la moglie del mio lettore di cinese sui tetti del loro palazzo nei vicoli di Napoli, e, per comprendere meglio il Jeet Kune Do seguii delle lezioni private di Kung Fu stile Wing Chun, imparando la prima delle tre forme a mani nude dello stile: la ‘Siu Nim Tao’ o ‘Piccola Idea’, al fine di assimilare il concetto di linea centrale e eseguire meglio e secondo le giuste linee quei concetti attorno ai quali Bruce Lee aveva cucito sulla propria pelle il proprio Jeet Kune Do, partendo da principi di Wing Chun, Scherma e Boxe occidentale. Non molto tempo dopo averle apprese, non fui mai molto tentato di ripeterle, dimenticandone i dettagli negli anni. Non ero certo un fan sfegatato delle forme. Di qualunque arte marziale esse fossero. Non feci salti mortali per la gioia quel giorno all’idea di vederne alcune del Pukulan e contavo i secondi per smettere di ripetere quei pochi movimenti e iniziare a vedere le applicazioni. Fino a quel momento avevo visto sicuramente grazia ed eleganza, precisione, tecnica, simpatia degli ospiti ma nulla per cui fossi lì. Erano già passate circa due ore di allenamento.
Smettemmo con gli esercizi a vuoto, sicuramente interessanti, esemplificativi dell’arte, ma ero proiettato da mesi verso quell’immagine descrittami d Alberto e volevo scoprire quanto aderisse alla realtà o quanto era stata gonfiata allo scopo di attirarci lì.
Qualche altra spiegazione da parte di Walter. Il suo tono di voce era diverso. Un oratore meno navigato di Olivier. Chiamò Anand per assisterlo e si accinse a mostrarci alcune possibili applicazioni dei brevi tre Jurus che avevamo eseguito. Finalmente potevo vederlo in azione.
Il comune denominatore di quelle poche applicazioni che introdusse per scaldare i motori fu un’aggressività al di là dei canoni comuni di qualunque seminario cui avessi partecipato. Ai minimi accenni di movimenti di Anand, Walter si spostava colpendo ripetutamente e camminando verso di lui a zigzag. O meglio … camminando ‘dentro’ di lui a zigzag. I colpi di Walter venivano accompagnati da esclamazioni di dolore dei partecipanti, indotte dagli impatti che Anand assorbiva digrignando i denti e assumendo con il viso un’espressione aggressiva e di pronta reazione. Subito dopo, un accenno di sorriso. Walter non caricava le tecniche, lasciandole partire da dove braccia o gambe si trovassero. La fine di una tecnica era l’inizio di un’altra, ogni movimento non veniva sprecato. Un caricamento era anticipato o seguito da un’altra tecnica. Spesso alcuni colpi proseguivano dopo aver colpito la loro corsa in un’altra parte del corpo dell’aggressore. Le gambe di Walter impattavano automaticamente le caviglie, le ginocchia o le tibie di Anand rubandogli la posizione, spostandolo quel tanto che bastasse per non dargli la possibilità di reagire. Come un animale che esce da un fiume scrollandosi di dosso l’acqua, Walter scuoteva le spalle e le braccia mulinavano su Anand preparando e progettando il colpo successivo. Era lui a decidere dove Anand dovesse spostarsi, quale la direzione della testa, quale gamba regalare e sacrificare alle tibie di Walter. Non era Walter a cercare i bersagli, ma gli stessi bersagli andavano verso gli spigoli di Walter. Gomiti, avambracci, nocche, polsi, tibie, ginocchia, tutte le sue ossa erano pronte ad attendere l’arrivo di qualche parte del corpo di Anand come se inconsciamente sapessero già i loro punti di arrivo. Lavorava sulla meccanica del corpo umano in modo fluido ma potente.
Notai come fosse necessario colpirsi. Se quei colpi non fossero arrivati con la giusta potenza, pur sempre controllata, dopotutto Anand non riportò alcun problema fisico e finiva di subire sorridendo, Walter non avrebbe avuto da parte del suo assistente la giusta reazione. Se camminando nella sua gamba, ad esempio, il passo non avesse impattato prima di poggiare a terra, nella caviglia di Anand con la giusta potenza, questi non avrebbe reagito spostando quella gamba per l’impatto, sbilanciandosi in avanti, cadendo con la faccia sul gomito di Walter e lasciando la gamba rimasta a fare da supporto lì per il colpo di grazia dell’altro passo-colpo di Walter di tibia o di ginocchio.
C’era una parola per tutto quello: consequenzialità.
Quante arti marziali avevo visto. Tutte avevano i loro pugni diretti, le gomitate e calci frontali, laterali o circolari. Le meccaniche erano quelle. Variavano dettagli, particolari o punti di impatto. Ma i concetti di base si somigliavano. Questo era diverso. Trovavo tutto così logico. Non c’era bisogno di alzare una gamba e colpire in viso o all’addome l’avversario. Si andava a far scontrare la cosa che più al mondo siamo abituati a fare, il semplice camminare, usando i passi come colpi, cercando le gambe dell’avversario per poggiare i propri piedi, intersecando le linee, utilizzando le ginocchia come spigoli nelle ginocchia, le tibie nelle tibie. Non si assumeva alcuna guardia, le braccia che si sarebbero utilizzate per camminare, ciondolando avanti e indietro e controbilanciando gli spostamenti delle gambe di una qualunque passeggiata divenivano movimenti per colpire. Lo trovavo geniale, originale e il modo di applicarlo, quell’aggressività, quella determinazione che si leggeva sul volto di Walter accompagnava nel giusto modo la sensazione di incisività di ogni singolo colpo. Stavamo osservando alcune applicazioni dalla posizione-spostamento “Tre”. Avevo finalmente visto il motivo di quella strana posa della foto di Walter. Ma cosa dico. Non era una posa. Non vi sono posizioni nel Pukulan. Era un attacco. Una gamba avanti, in una probabile foto di Pukulan è già un colpo, un gomito posizionato verso il basso è già un cercare qualcosa da colpire e il guardare l’obiettivo è già una promessa di dolore.