IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #30 on: May 10, 2011, 10:49:37 am »
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PARTE VII - L’Arte di lucidare il diamante

Prima di passare alle applicazioni a coppie Walter ci guardò e ci chiese se avessimo domande da porgli. I soliti sguardi interlocutori, ognuno di noi guardò a destra e sinistra come se tutti stessimo per attraversare una strada trafficata. Le domande c’erano, ma nessuno era intenzionato a rompere il ghiaccio e fare la parte del rompiballe. Sorridendo disse: “forza ragazzi, se non fate domande vuol dire che tutti avete capito tutto o che la cosa non vi interessa”.
Un temerario alzò la mano.
“E se l’avversario attacca con l’altro braccio? Se invece di darmi un destro mi da un sinistro?”. Walter scrollò le spalle con indifferenza e soddisfatto per la domanda rispose: “A me non importa cosa faccia lui.” Perplessità! “Che vuol dire?”. Walter spiegò: “Io non posso prevedere come attaccherà lui. Non ho il tempo di vedere che braccio mi sta arrivando in faccia e valutare se andare a destra o a sinistra, se applicare una combinazione dalla parte destra o dalla parte sinistra. Se voglio però applicare quella combinazione, lo farò a prescindere dal braccio che mi sta attaccando. Trasferisco i principi dall’esterno all’interno o viceversa. Se ho deciso di andare a sinistra, perché magari lui mi attacca con il destro, e quindi gli vado sull’esterno, farò lo stesso se mi attacca con il sinistro. Solo che mi troverò al suo interno. Io devo basarmi su quello che io voglio fare, non ho il tempo per accorgermi, riflettere e decidere di muovermi da una parte o l’altra in base al suo attacco. Ho deciso di andare a sinistra? Perfetto. Sono bravo a muovermi da quella parte lì? Ok. Andrò comunque lì. Cambierà solo il trovarmi sul suo esterno o sul suo interno. A me non importa. Io uso le mie linee. Ho i miei angoli. Decido io, non lui! Il Pukulan è la via più breve. Farà la cosa più semplice e diretta, ossia, andare dove avevo deciso di andare. Noi ci alleniamo sulla reazione. Ma calcolate che nel Pukulan non esiste una reazione. Noi non reagiamo. Agiamo e basta. Se lui vuole spaccarmi la faccia lo vedo, non viene con dei fiori, non lo lascio avvicinare. Me ne accorgo dall’atteggiamento, dallo sguardo, da come respira, dai muscoli della faccia. Io guardo le persone. Le osservo. Le studio”. Improvvisamente mi tornò in mente come osservasse i partecipanti che arrivavano al palazzetto. “Guardo come si muovono e molto probabilmente so già anche dalla corporatura o da come cammina o da come si muove se è un combattente oppure no … e magari se è mancino oppure no. Nel Pukulan anticipiamo. Sempre! Chiamiamo questo modo di fare 'colpire al batter di ciglia'. C'è sempre un segno rivelatore che ci indica che l'aggressore sta per agire. Un guizzo dello sguardo, un piccolo movimento delle palpebre. Sfruttiamo quello. Tutto può funzionare, in qualunque arte marziale, ma solo se non lascio fare all’avversario quello che vuole. Altrimenti non funziona nulla. Qualunque tecnica o combinazione, o agisco io per primo, quando vedo il pericolo, o rischio di soccombere”.
Un altro partecipante chiese: “quindi ci si allena su attacco del compagno solo come allenamento?”. Walter: “Esatto! E’ più semplice e serve per sviluppare ‘timing’, la scelta di tempo e i riflessi. Ma nella realtà agisco per primo, non lascio fare. Parto sempre dal presupposto che chi mi è di fronte sia più forte di me. Quello che devo fare è non lasciarglielo dimostrare”.
Domanda di rito: “in questo modo non si va incontro a problemi legali?”.
La sua risposta fu: “Certamente! Ma il mio principale obiettivo è salvarmi la vita o l’incolumità mia e di chi sta con me. Il resto è secondario. Agisco in base al momento e il momento mi da un segnale di pericolo imminente. Agisco su quello. Il resto è un pericolo secondario. Sicuramente tutti conoscete il detto ‘meglio un brutto processo che un bel funerale’… ecco, noi la vediamo così!”.
Ormai il ghiaccio era stato rotto e le domande arrivavano una dietro l’altra.
“Quando vi allenate vi colpite sempre così forte?”.
La risposta darebbe luogo a interi capitoli e pagine sul Pukulan, ma in questa sede sarò breve, non anticipando cose che scriverò in seguito:
“Si”. Rispose. “Se sono abituato al dolore non ne resterò scioccato. Vi sarò abituato. Il dolore ti cambia. Il Pukulan ti cambia. Il nostro modo di allenarci cambia chi lo pratica. Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire. Se sono abituato e per anni mi alleno in questo modo, al momento di uno scontro potrò pensare …. cosa potrà mai farmi costui a mani nude a cui non sia già da anni abituato? Se so già accettare il dolore di persone allenate e con arti condizionati in anni di duro allenamento, come posso preoccuparmi del dolore che può darmi uno qualunque”?
Notando le nostre facce, sorrise e aggiunse: “Il Pukulan non è per tutti. Siamo pochi e non ci interessano i grandi gruppi. In questo modo ci assicuriamo alti standard, il livello dei praticanti resta alto, non ci interessa commercializzare l’Arte. I perditempo e chi non è in grado di sopportare certi allenamenti resta lontano. Noi usiamo dire ‘non sei tu a scegliere il Pukulan, ma il Pukulan a scegliere te ’ ”.
Il messaggio era chiaro.
Proseguì: “Non c’è altro modo di allenare quest’Arte. L’unico modo di allenarsi è questo. Se non lo accetti sei fuori. Se non lo sopporti sei fuori. Se non lo condividi restane lontano. Non cerchiamo l’approvazione di nessuno. Non cerchiamo sostegno o assensi. Dentro o fuori. O ti alleni con impegno, costanza, dedizione e sacrificio o fai altro. Senza offesa. Amici come prima. Ci sono tante belle arti marziali. Fai altro. Ma non far perdere tempo a noi. Il tempo è prezioso e il tempo del nostro allenamento lo è di più. Io sacrifico il divertimento e tanto altro per il Pukulan. Per noi prima viene il Pukulan, poi viene il Pukulan, poi viene tutto il resto. Questa è la mia vita. Usiamo dire ‘lucidare il diamante’. L’allenamento è ‘lucidare il diamante’ e lo facciamo ogni giorno. E ciò che più conta, c’è solo un modo per farlo. Questo è il Pukulan”.
Ci guardammo perplessi. Con quella stessa perplessità ci accingemmo a eseguire le applicazioni a coppie.

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Wa No Seishin

Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #31 on: May 10, 2011, 13:12:47 pm »
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“E se l’avversario attacca con l’altro braccio? Se invece di darmi un destro mi da un sinistro?”. Walter scrollò le spalle con indifferenza e soddisfatto per la domanda rispose: “A me non importa cosa faccia lui.” Perplessità! “Che vuol dire?”. Walter spiegò: “Io non posso prevedere come attaccherà lui. Non ho il tempo di vedere che braccio mi sta arrivando in faccia e valutare se andare a destra o a sinistra, se applicare una combinazione dalla parte destra o dalla parte sinistra. Se voglio però applicare quella combinazione, lo farò a prescindere dal braccio che mi sta attaccando. Trasferisco i principi dall’esterno all’interno o viceversa. Se ho deciso di andare a sinistra, perché magari lui mi attacca con il destro, e quindi gli vado sull’esterno, farò lo stesso se mi attacca con il sinistro. Solo che mi troverò al suo interno. Io devo basarmi su quello che io voglio fare, non ho il tempo per accorgermi, riflettere e decidere di muovermi da una parte o l’altra in base al suo attacco. Ho deciso di andare a sinistra? Perfetto. Sono bravo a muovermi da quella parte lì? Ok. Andrò comunque lì. Cambierà solo il trovarmi sul suo esterno o sul suo interno. A me non importa. Io uso le mie linee. Ho i miei angoli. Decido io, non lui! Il Pukulan è la via più breve. Farà la cosa più semplice e diretta, ossia, andare dove avevo deciso di andare.

In linea col dubbio che mi porto sempre dietro (l'ultima volta che ho chiesto 'sta roba, ero al Gathering): se ho difficoltà a veder partire i colpi (dx, sin, gancio, montante, diretto) devo cercare una "costruzione" che vada bene sempre.

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Offline Ale_ale

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #32 on: May 10, 2011, 13:23:01 pm »
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“Se sono abituato al dolore non ne resterò scioccato. Vi sarò abituato. Il dolore ti cambia. Il Pukulan ti cambia. Il nostro modo di allenarci cambia chi lo pratica. Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire.

il modo in cui in pratica intendete questo è la parte che mi interessa di più, ma attendo di leggere il resto del racconto  :)
da noi si distingue fra il dolore e il far male, far quello che è "allenante" e aiuta il compagno a rinforzarsi e quello che crea semplicemente un danno fine a se stesso...

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #33 on: May 10, 2011, 13:23:14 pm »
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Vero.
Dedicato a tutti quelli che credono che si possa reagire un pugno già partito.
Cioè... certo che puoi pararlo, schivarlo, bloccarlo, defletterlo, acciuffarlo, ma allora non si trattava di un pugno, ma solo di uno smanacciamento a mano chiusa.
I pugni veri fanno male.

Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire. Se sono abituato e per anni mi alleno in questo modo, al momento di uno scontro potrò pensare …. cosa potrà mai farmi costui a mani nude a cui non sia già da anni abituato? Se so già accettare il dolore di persone allenate e con arti condizionati in anni di duro allenamento, come posso preoccuparmi del dolore che può darmi uno qualunque”?

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Offline The Spartan

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #34 on: May 10, 2011, 14:16:53 pm »
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O un pugno tirato male...
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"Ho tutto il giorno libero!"


The Guy - P.K. & Chris...rustici compari.


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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #35 on: May 10, 2011, 19:28:18 pm »
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PARTE VIII - La mattanza

 

Le applicazioni erano quelle mostrate da Walter su Anand. Quelle estrapolate dal primo Jurus. Su attacco di diretto destro dovevamo uscire verso sinistra controllando il colpo in arrivo e percuotendo allo stesso tempo il viso e rientrando con altre percussioni. Tutto, logicamente, avanzando e colpendo avanzando. Non facile direzionare le gambe in un certo modo e usare le braccia contemporaneamente.

Come compagno di allenamento mi capitò Simone. Una fortuna. Un ragazzo disponibile e simpatico, umile ma dannatamente tosto come combattente. Un tipo molto alla mano e cordiale, ma che una volta indossati i guantoni per fare sparring non aveva mezze misure. Menava come se fosse sul ring in una finale per il titolo. Istruttore di Yosekan Budo e poi mio collega di corso istruttori di Kali e Jeet Kune Do. Aveva partecipato a molte competizioni a contatto pieno di svariate arti marziali. Il termine contatto leggero gli era totalmente alieno. Potente, sciolto di gambe, bravo anche nelle proiezioni, ottima tecnica pugilistica e abile nell’uso delle armi tradizionali giapponesi come tutti i praticanti esperti di Yosekan Budo. Un ragazzo tranquillo fuori dal quadrato, un avversario da non sottovalutare al suo interno. Fui contento di essere capitato con lui. Andavamo molto d’accordo. Spalle larghe, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli castani ricci e tutte le ossa del viso abbastanza pronunciate.

I tre olandesi iniziarono a girare tra i partecipanti per controllare la corretta esecuzione delle tecniche. Alberto e Emilio giravano anch’essi. Uno di loro munito di telecamera. L’altro osservava incuriosito e divertito le “correzioni” degli esperti.

Fu una mattanza.

Io e Simone iniziammo ad attaccarci in modo alternato. Quattro o cinque attacchi consecutivi ciascuno, poi ci davamo il cambio. Tutti gli altri, a coppie, fecero altrettanto.

Vidi Walter avvicinarsi a una coppia. Spiegò loro come eseguire correttamente l’entrata. Mostrò come chi svolgeva il ruolo di aggressore dovesse essere più incisivo e realistico nell’attacco e come chi subiva l’attacco dovesse acuire i riflessi di conseguenza e reagire più prontamente, anticipando l’uscita e il rientro e facendo “sentire” la tecnica. Spiegò come.

Mi dilungo solo un po’ su questo argomento. Ci sarà tempo per spiegare, poi, i come e i perché. ‘Sentire’. Un termine che si usa spesso nel Pukulan. ‘Sentire’, ‘to feel’ è fondamentale. Domande come “do you want to feel?” (vuoi sentire?) o “do you feel it?” (la senti?), nel Pukulan sono molto frequenti. Spesso è il viso del compagno di allenamento a rispondere. Non c’è bisogno di dirlo. La contrazione muscolare del viso è esplicativa più di mille parole. L’espressione di dolore ci rivela se il colpo era buono. Altre volte ci si ‘racconta’ la sensazione. Tra praticanti si parla di ‘carne da allenamento’. Ci si considera tutti con questo appellativo. Potrebbe sembrare un termine dispregiativo, ma non lo è. Essere l’uno per l’altro ‘carne da allenamento’, sia quando si danno i colpi, sia quando li si riceve, è un reciproco regalo, uno scambievole carnale presente. Si prestano le proprie ossa e la propria ‘carne’ per permettere ad altri di allenarsi e si riceve altrettanto. E se la sensazione non soddisfa, se il ‘timing’ non è giusto, il punto di impatto non preciso, se non si riesce a far ‘sentire’ il proprio osso al compagno di allenamento, allora ce lo si dice e si riprova e si riprova ancora. Ci si assicura che la tecnica sia corretta. Non esteticamente e non solo meccanicamente. Chi dà.. deve ‘sentire’. Chi riceve deve ‘sentire’. Solo in questo modo si è sicuri che chi sta colpendo sta eseguendo qualcosa di valido e chi riceve sta imparando a ricevere con la giusta prontezza d’animo. Altruismo. Non saprei chiamarlo in nessun altro modo. Ma ancora più importante: se la tecnica non viene portata con la giusta dose di potenza, non si riesce ad ottenere una reazione adeguata da parte dell’avversario/compagno. Non si riesce a guidare l’avversario dove si vuole per potere continuare gli attacchi, e il concetto di consequenzialità va a farsi benedire.

Ecco perché Walter menava per spiegare. Non v’era cattiveria. Lui voleva che capissimo.

Non ho mai condotto allenamenti leggeri. Ho sempre creduto nella necessità di doversi allenare con un certo realismo, ma il loro modo di allenarsi era esattamente come Roberto mi aveva accennato quella sera a cena: fuori dai normali canoni, non commerciale, improponibile per grandi gruppi, corsi o seminari come normalmente li si intende.

La grande sala del palazzetto riecheggiava dei lamenti e degli impatti. Ricordo che riuscii ad allenarmi ben poco se non quando uno degli olandesi era da noi a spiegarci le tecniche. Si era tutti talmente presi da ciò che correggevano e mostravano alla coppia di turno, che ci si fermava lì a guardare cosa accadesse, sadicamente ridacchiando e divertendosi a osservare le facce sofferenti, più o meno stoiche, delle vittime di turno. Come pupazzi si veniva sballottati dagli impatti che arrivavano da più direzioni e non si faceva a tempo a riprendersi dal dolore o prendere coscienza dell’impatto precedente, che arrivava, incalzante, il seguente. Che fosse Walter, decisamente il più deciso – mi si passi il gioco di parole – Anand, che neanche ci scherzava, e il più ‘stiloso’ e tranquillo Olivier, tutti loro non risparmiavano particolari, rispondevano entusiasti più di noi alle nostre domande e curiosità. Una disponibilità mai vista in alcun seminario, dove, in genere l’esperto centellina informazioni e dettagli e il seminario non diventa altro che un grande spot pubblicitario pagato dai partecipanti.

L’aspetto più divertente era il terrore che si diffuse in sala quando ci si accorgeva, mentre si era intenti a eseguire le tecniche con il proprio compagno, che si era osservati da uno di loro. Ci si accorgeva con apprensione che si era puntati, controllati, e dal momento in cui la tecnica era certamente non idonea, si stava per essere corretti. Ciò significava dover ‘sentire’ le tecniche come dovevano venire eseguite direttamente da loro. Ma, il problema era un altro. Se ad esempio ero io a sbagliare l’esecuzione della tecnica su Simone e uno di loro veniva a correggermi, allora mi avrebbe fermato e gentilmente mostrato con cura la corretta esecuzione, dilungandosi in numerosi esempi sul malcapitato innocente mio compagno di allenamento; il quale, non solo era così gentile da prestare il proprio corpo a me per allenarmi, ma doveva prestarlo anche a loro per permettergli di spiegare dove sbagliassi. Dolore. E chi veniva corretto sorrideva diabolicamente guardando come il suo compagno venisse usato come sacco.

Con il passare delle ore si creò un perverso gioco di vendette. “Stronzo, falla bene stavolta, ti sta guardando. Eccolo lo sapevo, sta arrivando”, “quale dei tre?”, “il più cattivo!”. Risata sommessa. “Questa me la paghi, bastardo!”. Si giunse alle ritorsioni. Ci fu qualche ‘infamone’ che fingendo di non capire, chiedeva di rivedere l’applicazione o incalzava con altre domande per vendicarsi delle botte subite in precedenza.

Scherzavamo, ma fu davvero interessante vedere decine e decine di applicazioni e seppure doloroso, fu un gran giorno.

Attorno alla coppia che riceveva le spiegazioni e le correzioni si formavano cerchi di persone che osservavano le diverse applicazioni mostrate da Walter, Anand o Olivier. Avevano approcci diversi sia nell’agire sia nello spiegare. Walter diretto e duro. Anand una versione meno cattiva di Walter e Olivier un’enciclopedia. Restava lì per minuti e minuti. Mostrava alternative, variazioni, esercizi per apprendere quel movimento. Le applicazioni a coppie venivano interrotte da altre combinazioni introdotte da Walter su Anand. Sempre stessi risultati: impatti impressionanti. Ossa contro ossa. Tibia contro tibia con Anand che era letteralmente alzato da terra per la potenza dell’impatto. Se ne sentivano i rumori, coperti solo dalle esclamazioni di dolore indiretto dei partecipanti. Poi, di nuovo a coppie a provare quanto visto.

Incrociai un paio di volte Emilio, il quale sorpreso dalle abilità degli olandesi, commentava: “E’ incredibile come da una distanza così breve possa riuscire a sviluppare un impatto così potente!”.

Ricordo in particolare le volte in cui toccò a me ricevere le loro tecniche. Tra loro colpivano con ben altra intensità. Con noi andavano più tranquilli, ma si facevano dannatamente ‘sentire’.

La prima volta che Walter venne da me ebbi la possibilità di sperimentare in modo diretto le pesantezza dei suoi colpi. Lo attaccai con un diretto destro, spostandomi in avanti con la gamba destra. Intercettò e tagliò la mia linea di attacco, deviando e deflettendo il mio colpo e facendomi osservare le sue nocche da pochi millimetri. Venni sbilanciato, il suo braccio era pesante. Allo stesso tempo la sua gamba era nella mia, la sua rotula puntava nel mio menisco. Il mio busto sbilanciato in avanti. Aprì la sua mano allungando le dita e colpendomi il lato del naso e appoggiandomi le nocche delle dita sull’occhio destro. Colonia e tabacco. Questa manovra mi girò “gentilmente” il viso altrove. Si fermò un attimo, si girò verso Simone dicendogli: “E’ importante che lui non guardi cosa gli stia accadendo. Se non lo sa tutto fa più male e non sa da cosa deve difendersi”. Non sapere cosa mi sarebbe arrivato triplicò la preoccupazione degli impatti. Almeno sapendo dove potevo assecondare. Mi giunse una combinazione di qualcosa che non riuscii a vedere. Mi colpì controllando ripetutamente alle costole, ne contai almeno tre, ma furono così rapidi che ne sembrò uno con vibrazione. Le mura del palazzetto mi sembrarono di gelatina mentre l’impatto mi scuoteva in diverse direzioni. Il peso del mio corpo era prima avanti, poi spostato su un lato, poi dietro. Fu Simone ad aggiornarmi della situazione, dicendomi che aveva portato due colpi di nocche alle mie costole e un ultimo di gomito verso la mia testa. Di questo riuscii ad ascoltare il suono. Un forte scoppio il cui eco rimbalzò sotto al soffitto arcuato della sala. Aveva stoppato l’osso del suo gomito a un centimetro dal mio cranio, lasciandolo impattare sulla sua mano. Lo scoppio fu causato da questo. Il tempo di fissare un attimo l’immagine del suo omero sulla mia retina e sentire l’odore di candeggina della sua divisa e poi una acuta sensazione di dolore direttamente nel femore della mia gamba destra. Fui schiacciato verso il basso. Lui non mi aveva spinto via, mi aveva incollato al suolo. Il dolore era stato provocato da uno strettissimo movimento frustato della sua tibia sinistra nella mia coscia destra. Per alcuni secondi la mia gamba non rispose ai miei comandi. Tutta la mia concentrazione era presa dal dolore causato da quella frustata. Esisteva solo quello. Era partito da una distanza minima, senza caricamento, un movimento che apparentemente non doveva avergli chiesto ne sforzo ne preavvisi. Mi sorrise e ci spiegò: “A me non interessa spostare via o spingere il mio avversario. Altrimenti non posso colpirlo. Io voglio stargli a stretta distanza. Quella è la nostra specialità. La stretta distanza. Dove i colpi arrivano rapidi e molti sono impreparati a reagire. A me interessa spostarlo quel tanto che basta per sbilanciarlo se vuole colpirmi, levare peso alle sue possibili reazioni, per poi incollarlo giù, dove dico io. Poi, colpirlo e colpire ancora. Non importa cosa voglia farvi un aggressore. Voi colpite. Colpite sempre!”. “Pukul!”. Alzò le sopracciglia. “Always Pukul!”

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #36 on: May 11, 2011, 16:56:09 pm »
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PARTE IX - Dettagli e 'proprietà transitiva del dolore'......

“Il problema è riuscire a farlo coordinando in questo modo gambe e braccia”, gli dissi. Mi sorrise: “Lo so! Non è facile. Ma lo può diventare allenandosi. Il segreto è sol
o lì: l’allenamento. E’ così che le tecniche diventano fluide e braccia e gambe si coordinano da sole e il corpo agisce da sé”. Aggiunse un’altra di quelle massime a effetto tipiche del Pukulan, con aria soddisfatta e di chi ricorda la prima volta che egli stesso ebbe modo di sentire quell’espressione: “le braccia non vanno mai in guerra senza gambe. Le gambe non vanno mai in guerra senza braccia. E un braccio non va mai in guerra senza l’altro”.

Il mio sguardo cadde sullo stemma cucito sul petto sinistro della giacca. Un logo a sfondo bianco bordato rosso. Una scritta ad arco in alto: ‘Pencak Silat’. Un’altra a conca che accompagnava l’estremità in basso: ‘Pukulan Pecutan’. Ricordavo che il nome fosse Pukulan Madura. Tra le due scritte in basso, ad accompagnare i lati, v’erano degli steli di riso. Poi, al centro, una rossa testa di bufalo avvolta da una lunga frusta e ai suoi lati due armi tipiche del sud-est asiatico: un kris, il coltello dalla lama serpentina, e un ‘cabang’, una sorta di coltello a tridente. Mi chiesi incuriosito cosa volessero significare tutti quei simboli raccolti in un unico logo e mi parvero un po’ eccessivi.

Mi colpì anche che la testa del bufalo fosse obliqua, chiedendomi se fosse un errore di chi avesse stampato quel logo o una scelta voluta.

Le volte in cui capitarono Anand e poi Olivier a correggere i nostri errori furono numerose.

Al di là dell’interesse tecnico, rammento come Anand richiese una maggiore determinazione da parte mia. Per lui non entravo su Simone in modo sufficientemente deciso. Mi fece ripetere lo spostamento e il contrattacco molte volte. Ad un certo punto mi fermò, mi si pose d’avanti e avvicinandosi più del necessario mi fissò negli occhi e chiese: “sei un istruttore?”. “Si”, risposi. “E allora dimostralo”. Dicendomelo spalancò gli occhi, digrignò i denti e mi colpì con leggeri schiaffetti la guancia sinistra. Mi diede abbastanza fastidio. Tuttavia suscitò in me la reazione giusta. Mi diede estremamente fastidio che mi avesse messo le mani in faccia. Per rispetto non mi sarei sognato di reagire. Capii che ciò che mi chiedeva fosse rabbia. Ed era riuscito ad ottenerla. Quando reagii su Simone fui aggressivo. Volevo dimostrargli che se avessi voluto avrei tirato fuori ciò che servisse per accontentarlo. Sorrise soddisfatto e indicandomi esclamò: “Yes!!!”. “E’ sempre con questa mentalità che ci si deve allenare. Altrimenti è inutile”. Dimostrandoci alcune varianti fu duro nelle entrate. Non ci risparmiò dolore aggiuntivo a quello datoci da Walter. Ma servì. Servì a capire. Servì a comprendere che non era solo una questione di impatto, ma anche di corretta mentalità. Tutte le altre applicazioni furono da noi eseguite con la medesima dose di aggressività. Il nostro cervello aveva eseguito una specie di “switch”, un cambio, una modifica. Un interruttore era stato scoperto e smosso. Lo lasciammo acceso per tutto il tempo dell’allenamento. Seguirono una serie di colpi intensi tra me e Simone. Rabbia controllata e incanalata esclusivamente nell’esecuzione di un gesto tecnico, allo scopo di rendere l’allenamento ‘reale’. Fummo presi dalla foga pur non ferendoci. L’allenamento che ne seguì fu intenso. Solo un’interruzione di diversi minuti avrebbe spezzato quella concentrazione.

Quando fu il turno di Olivier, l’esperienza fu ancora diversa. Deciso nelle entrate, potente anche lui, ma si capiva subito che amava spiegare e far capire i dettagli. Spesso si dice ‘se vuoi aiutare qualcuno non dargli del pesce, regalagli una canna da pesca’. Fu ciò che Olivier fece. Non ci mostrò le esecuzioni corrette. Ossia, non si limitò a quelle. Lui si addentrò nei particolari, mostrando variazioni sul tema e esercizi per sviluppare e allenare quei movimenti. Logicamente non avremmo potuto memorizzarli. Ne mostrò tanti. Ma ciò che conta è che lui ci stesse gratuitamente illustrando ‘come’ loro arrivassero a muoversi in quel modo. Come allenare i Langka sulle figure geometriche. Per farlo utilizzava le linee a terra del campo di basket, proiettandone altre immaginarie. Il busto ruotava in continuazione trascinando con sé le spalle. Queste tiravano dietro le braccia. L’altezza variava continuamente e la respirazione era breve e ritmica. Gli impatti venivano estinti sulle proprie mani causando una serie di forti scoppi continui, la divisa schioccava sulle braccia a causa delle loro violente frustate. L’inerzia la faceva arrancare dietro all’ultimo movimento e l’inizio del successivo le dava il nuovo impulso e un nuovo schiocco e fruscio. Lo si sarebbe potuto ascoltare chiudendo gli occhi e immaginando con la propria fantasia i colpi e gli spostamenti. Non v’era un singolo movimento a vuoto. Non uno che non venisse accompagnato da almeno un colpo. Accelerando e decelerando, spezzando il ritmo. Sembravano assoli di un batterista. Attaccava su più direzioni, come se stesse combattendo contro più avversari. “Il Pukulan non è per le applicazioni sportive”, ci disse. “Nasce per preservare la propria incolumità. Quando ci si allena la mente è settata su più direzioni e su più avversari. Questo è il motivo principale per il quale vi trovate in difficoltà. Voi vi muovete, spostate e colpite con il tallone posteriore sollevato. Ciò a causa delle arti che praticate. Noi invece il tallone lo teniamo incollato a terra. Questo mi permette di avere una maggiore stabilità e di spostarmi rapidamente su più angoli e direzioni di attacco”.

Nelle arti marziali indonesiane è frequente vedere praticanti che fanno impattare i colpi sulle proprie mani. E’ una pratica curiosa. Nell’esecuzione delle ‘forme’ si emettono questi battiti continui, accompagnando i movimenti con una colonna sonora fatta di respirazione, battiti dei colpi e schiocchi della divisa. Quando la divisa schiocca sul proprio corpo vuol dire che i movimenti sono esplosivi e eseguiti con repentini cambi di direzione. Il battito dei colpi sulle mani significa precisione. E’un appuntamento tra il colpo e il bersaglio. Ci si assicura la corretta linea di impatto. Il punto preciso. Il corpo da una leggera accelerazione se sa che sta per impattare su qualcosa, migliorando la scelta di tempo. Farlo a vuoto è diverso, non trasmettendo l’impulso dell’impatto. Inoltre dare un bersaglio, seppure venga rappresentato dalla nostra stessa mano segna il luogo preciso sulla linea e sul vertice delle geometrie, migliorando la forma, la coordinazione e la precisione. Non ultimo, gli impatti sono violenti. Se ripetuti diverse volte, mani colpite e armi utilizzate si auto condizionano automaticamente, aggiungendo quel quid in più ad ogni allenamento. Le mani, alla fine, sono rosse, tutte le superfici cutanee che hanno colpito o hanno subito il colpo sono ustionate e friggono per le decine e decine di impatti ripetuti, i nervi risvegliati e ogni scoppio che arriva più forte è fonte di soddisfazione e da la carica per aumentare ulteriormente al successivo. Variava i passi dal ‘Tre’, passava al ‘Quattro’, tornava in ‘Tre’, poi ‘Cinque’, senza alcuna stasi, fluido e continuo, le braccia mai ferme, lo sguardo variava intensità con i colpi, la testa seguiva le linee, le spalle erano scosse alternandosi come talvolta mi era capitato di vedere in alcuni balli sud americani. La differenza era che in quel caso erano la polvere da sparo delle tecniche di braccia e delle potenti contro rotazioni del busto e delle gambe. Le mani erano chiuse a pugno, d’improvviso si aprivano, a volte mostravano il palmo, altre volte le dita, i polsi giravano come se colpissero, i colpi arrivavano di taglio, poi i pugni si serravano ancora e colpivano diretti o strusciando con frustate di polso. La maggior parte dei pugni veniva portata a palmi in su, come nel pugilato di una volta. Molto singolare. Non vi ero per nulla abituato.

E mentre si era intenti ad assorbire e registrare nella memoria un concetto appena visto, Olivier ne illustrava un altro. Il tono alto, gesticolando e facendoci paragoni con altri stili di Silat, spiegandoci il significato dei più piccoli gesti e di quei movimenti dei polsi, il perché delle mani ora chiuse e ora aperte. Poi... Walter ci chiamò.

Stavamo per vedere gli esercizi di base utili per il condizionamento osseo e come sviluppare una corretta ‘accettazione del dolore’.

Ci disponemmo per osservare.

Walter e Anand si fronteggiarono con gambe leggermente piegate, uno di fronte all’altro a un braccio di distanza. Iniziarono a colpirsi con le ossa dei polsi e degli avambracci. Usarono diverse angolazioni dando una accelerazione finale appena prima dell’impatto. Si sentiva il rumore delle ossa. Non ammortizzavano sui muscoli, erano le ossa a scontrarsi e provocare quei suoni. Alto, basso, interno, esterno, a spingere, a tirare, a tagliare. Avevo visto quelle pratiche in alcuni stili di Karate e KungFu, ma mai dal vivo, mai con quella intensità e il rumore delle ossa che si toccano con violenza si dimentica difficilmente. Poi, finite le angolazioni di braccia, le gambe. Smorfie di dolore dei partecipanti mentre i due praticanti di Pukulan incrociarono le tibie a x e si colpirono senza risparmiarsi cresta tibiale su cresta tibiale. Da un lato e dall’altro, interno, esterno. Il suono si sentì ancora più netto. Il viso di Anand era tra il dolore e il piacere amaro per la botta subita. Quello di Walter tendeva al divertito sadico. Ma era chiaro che i due si stessero divertendo e tacitamente sfidando la loro soglia del dolore. Poi, si allontanarono leggermente e si vennero incontro con un lungo passo in avanti per far scontrate di nuovo le loro tibie. Fu una piccola gara a chi giungesse prima in un punto stabilito. A chi rubava prima il tempo all’altro. Di nuovo un impatto violento. Fummo noi a esclamare dolore per loro, e non tanto per la prima volta che si colpirono, ma quanto per le successive tre, sempre più intense, il suono delle ossa sempre nitido. E ogni volta che smettevano con le braccia e sapevamo che stavano per trasferire quella tortura alle gambe sapevamo che sarebbe stato più forte.

Smisero con Anand che sorridendo a Walter tirò un paio di volte i talloni verso i glutei mostrandogli che aveva ‘sentito’ l’esercizio. Nessuna espressione facciale di dolore. Solo le nostre.

Ecco la parte peggiore. Toccava a noi ripetere l’esercizio. E se avessimo sbagliato? Sarebbero venuti a correggerci di persona mostrando come eseguirlo correttamente? Panico!

Io e Simone eseguimmo l’intera sequenza dapprima lentamente per memorizzarla, poi con un po’ più di veemenza. Tutto fu sopportabile. Intensificammo solo se notavamo che gli olandesi stessero guardando nella nostra direzione, per timore che venissero a correggerci e costringerci ad eseguire l’esercizio con loro. Subire una tibiata simile poteva significare smettere di allenarsi e dedicare il resto dell'allenamento allo strofinarsi la parte dolorante. Temendo inoltre di essere costretto a deambulare a malapena il giorno successivo. Per fortuna ci andò bene. Ad altri meno. Un paio di persone furono costrette a ripetere l’esercizio con loro. Ci andarono piano. Ma il piano per loro non era piano per noi. Questioni di diversa abitudine e condizionamento.

Terminammo la giornata doloranti e leopardati. Chi più chi meno aveva subito la sua piccola razione di Pukul (colpi). Io ero più che soddisfatto. Il mio principale timore era l’essere andato fin lì per qualcosa per la quale potesse non esserne valsa la pena. Invece avrei ripetuto quell’esperienza ancora e ancora. Dispiaciuto per la fine dell’allenamento e già aspettando l’allenamento del giorno successivo, mai avrei immaginato cosa sarebbe accaduto quella sera stessa.

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Offline Takuanzen

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #37 on: May 11, 2011, 17:41:53 pm »
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ok.... inizio a mettere qualcosa e vediamo come và...


PARTE I - INTRODUZIONE

Il “Frutto Amaro”. Majapahit.

Il nome di un regno dell’arcipelago malese, nato poco prima del 1300 e caduto poco dopo il 1500.
L’ultimo grande regno Hindu prima dell’avvento dell’Islam.
Isola di Java, Indonesia, il centro dell’impero Majapahit, che estendeva la sua influenza dalle Filippine a Sumatra, dal Borneo alla Malesia e Singapore.
Una lunga striscia di terre che sembrano giganteschi frammenti di un megalitico smeraldo esploso milioni di anni fa nell'azzurro del Mare di Java, tra l'Oceano Indiano e quello Pacifico.
Luoghi dove il verde ancora sovrasta con le sue sfumature e colori il monotono grigio del cemento delle metropoli. Territori dove i profumi, i suoni, le voci o i silenzi riescono a coprire l’incessante brusio di auto e prodotti della tecnologia incalzante. Dove le tradizioni combattono la loro eterna battaglia per la sopravvivenza contro l’offensiva della globalizzazione.

Il mio “viaggio” inizia da questo nome: “Frutto Amaro”, “Bitter Fruit”. Un termine simbolico. Quel frutto fu oltremodo amaro per le mille navi dell’Impero Mongolo di Kublai Khan giunte lì per punire il rifiuto di pagare i tributi. Confuse e sparpagliate, colsero l’occasione di sfruttare i venti dei monsoni per il loro dimesso ritorno a casa, a capo chino, pena l’aspettar lì in territorio ostile altri sei mesi. La controffensiva dell’arcipelago partì proprio dal villaggio di Majapahit, dove il locale frutto di nome Maja era tanto amaro da prestare il proprio nome all’omonimo villaggio, come poi il villaggio fece con il regno.

Ed è proprio una terra di villaggi e tribù, capanne e pescatori, spiagge e giungle, pianure fangose, terrazze di riso, montagne e corsi d'acqua, di foreste soffocanti, dove ogni suono potrebbe essere l'ultimo, di variopinti uccelli, bufali d’acqua, geki e grandi sauri, felini e grandi primati a fare da sfondo e sottofondo a un universo esotico e affascinante. E’ il regno del mare e dei templi, il regno di Bima, Garuda e Naga, la terra del Nagarakertagama, il principale poema epico Javanese, dove le donne portano i loro figli a tracolla nei Sarong colorati e gli uomini forgiano i loro Kriss dalla lama serpentina, scolpendovi il metallo e cesellando manici e foderi di legno pregiato e osso, infondendovi benedizioni e spiriti e demoni in quelle contrade ancora temuti e rispettati. Territori selvaggi protagonisti delle narrazioni di Emilio Salgari e Joseph Conrad.

E’ in posti come questi che nacque il nostro “frutto amaro”, dalle anime di questi luoghi, dalla loro storia e dalle loro leggende. E noi, aspiranti interpreti, ultimi umili eredi di Arti in via d’estinzione, ci facciamo carico dell’onore, dell’impegno di far sì che tale cultura marziale non vada perduta, onorando e rispettando quello spirito e quella dedizione che i padri pretendono, ed è con la loro benevolenza e benedizione, parimenti a quella degli anziani e dei nostri predecessori che speriamo di continuare il nostro comune, difficile, dolce e amaro viaggio tra spirito e materia, tra anima e sangue, carne e ossa di un'Arte chiamata Pukulan.

Non dirlo a me, che con i romanzi di Salgari ci sono cresciuto. Il Silat evoca sempre al mio cuore e alla mia mente quelle affascinanti atmosfere della mia infanzia. Lo stesso dicasi per questo tuo scritto, così denso di passione per quest'Arte... ;)

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Offline Muay Jack

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #38 on: May 11, 2011, 18:29:41 pm »
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Mi ero sempre domandato, vedendo i tuoi filmati il motivo per il quale terminavi le percussioni sul palmo della mano, se fosse un modo di fare o avesse un significato preciso. ora mi è piu chiaro :)

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #39 on: May 11, 2011, 18:32:52 pm »
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per carità..... è una cosa che si fa anche nel Kali... seppur con enfasi e traiettorie diverse...
Non confondiamo.... fa che l'Ira di Odino non si abbatta su di me anche in queste contrade...  ;)

Cmq Grazie per i commenti  :)


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Offline Muay Jack

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #40 on: May 11, 2011, 18:36:49 pm »
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Certamente, era solo innocente curiosità su un particolare, spero non sia motivo per creare altri disappunti

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #41 on: May 11, 2011, 18:43:59 pm »
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il motivo principale per cui lo faccio nel Kali è quello di far impattare con l'effetto "incudine martello".
Cioè far trovare la zona da colpire - che sia la testa o un bicipite, ad esempio - tra il gomito e l'altra mano, creando un effetto di forze contrapposte e intensificando l'impatto non lasciando 'sfogare' via il bersaglio...

Nel pukulan, come ho scritto, ha funzione geometrica, tecnica e didattica per il timing.... nonchè indirettamente 'condizionante'

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #42 on: May 12, 2011, 15:35:34 pm »
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PARTE X - Ecce Bruno

Ero più che soddisfatto. Il mio pensiero e la mia preoccupazione erano il rischio di dimenticare quanto visto, non aver filmato, fotografato, che con me non ci fossero le persone con le quali mi allenavo, quelli che mi erano più vicini. Volevo raccontare, testimoniare il mio entusiasmo per quanto praticato e ‘sentito’. Avrei voluto la possibilità di poter portare con me un paio di persone che in quel periodo seguivano i miei corsi di Kali e Jeet Kune Do. I più bravi. Coloro che avrebbero più potuto apprezzare l’allenamento svolto quel giorno.

Dolorante mi gettai sul letto della camera dell’Hotel. Lo stesso dove avevano prenotato tutti gli altri ragazzi che venivano da fuori regione Lombardia, dalle altre zone d’Italia. Ho fotografato e stampato nella memoria tanti momenti di quei due giorni: il viaggio, l’attesa, l’arrivo, i saluti, Walter all’entrata, chi fosse a prendere i nomi in quella segreteria improvvisata, tutto l’allenamento. Ma stranamente non riesco minimamente a ricordare con chi fossi in camera in albergo. Non ho fotografato immagini con i miei occhi che riguardano il mio compagno di camera. Incredibile. Ero talmente assorto nei pensieri, così concentrato nel ricordare tutti quei dettagli, che non ho l’immagine di chi fosse con me in camera.

Telefonai a Bruno, un ragazzo che si allenava con me da non moltissimo tempo. Frequentava la stessa palestra dove io svolgevo i miei corsi. Praticava Aikido, un grado avanzato e spesso, in assenza del maestro, era lui a condurre le lezioni. Il corso di Aikido finiva e noi iniziavamo sullo stesso ‘tatami’. Un tipo tranquillo con una faccia pacifica, biondino, la voce bassa e gentile. In principio, quando lo guardavo condurre il corso di Aikido per supplire il Maestro, non aveva suscitato le mie simpatie. Lo trovavo un po’ ‘impostato’. Praticante di stili giapponesi, ossequioso, salutava inchinandosi a ogni fine di tecnica. Aveva praticato Karate Shotokan e un po’ di Judo prima di passare all’Aikido. Il viso vagamente elfico, barba di alcuni giorni di default e due occhi sottili e chiari che si proteggevano dietro a un paio di occhialini da Nerd informatico. Il tipo che quando ti saluta neanche ti dice ‘ciao’. Troppo informale e volgare. Se si accorge che esisti si limita a regalarti un cenno del capo con leggero deficit di sorriso, tra il japan-style e il ‘Roger Moore de Mergellina’.

Ebbi l’occasione di scambiare due chiacchiere con lui una sera che ci ritrovammo nella sede napoletana di Emergency, nel centro storico di Napoli. Ci eravamo sempre evitati in palestra, forse per antipatia reciproca, forse per il fatto che entrambi parliamo poco se non conosciamo bene una persona. Eravamo lì per una sorta di breefing per un cortometraggio nel quale entrambi eravamo coinvolti. Una storia di sette segrete, antichi manoscritti, oggetti maledetti, condita con combattimenti di arti marziali. Un esperto di montaggio, uno sceneggiatore e un regista in quel periodo visionavano alcune palestre napoletane. Erano andati a cercare il Kung Fu, volendo delle coreografie spettacolari e movimenti ampi adatti alla macchina da presa. I movimenti stretti di ciò che praticavo io mal si adattavano alle coreografie che loro esigevano, ma la mia locandina in palestra aveva attirato la loro attenzione. Un kris filippino in una mano e una daga nell’altra, la divisa filippina nera bordata gialla e il mio look con tanto di cranio rasato e pizzetto mefistofelico li aveva solleticati al punto da chiedere quando sarebbe stato possibile osservare una mia lezione.

Le loro coreografie prevedevano l’uso delle armi e quando videro il mio allenamento con coltelli e lame di vario tipo mi chiesero informazioni descrivendomi il loro progetto. Anche Rino B.,  il Maestro di Aikido era stato coinvolto nel cortometraggio, dovendo anche interpretare uno dei principali personaggi della pellicola. Con lui Claudia, una bella ragazza della palestra cintura nera di Karate e Bruno.

Quella sera nel centro storico visionammo il promo del cortometraggio. Molto ben fatto. Io e lui discutemmo del Pencak Silat indonesiano. Gli accennai che conoscevo qualcosa di Silat, che i miei istruttori praticassero tale arte e lui mi raccontò di una volta in cui partecipò ad un seminario di Silat a Milano con un esperto americano e organizzato dalla stessa associazione che io rappresentavo in Campania. Mi disse che apprezzava il Silat indonesiano. Parlammo anche di altre arti marziali e capii che il modo in cui le concepivamo era molto simile.

Io e Bruno ci saremmo occupati delle coreografie delle scene di azione e probabilmente interpretato i cattivi in quegli stessi combattimenti, fungendo anche da stunt-men. In pratica, dovevamo inventarci un modo elegante per prenderle. Una punizione da girone dantesco. Vi furono delle giornate di allenamenti, clip video dimostrativi delle rispettive abilità, qualche incontro in cui non ci rivolgemmo la minima attenzione e poi i ‘cineasti’ ci suggerirono di mixare gli allenamenti tenendoci in contatto per creare scene di azione in cui il Kali e le sue armi potesse accordarsi con i movimenti dell’Aikido e le scene armate con Katana (lunga spada giapponese). Bruno e Claudia iniziarono a seguire i miei corsi per comprendere le differenze delle meccaniche del Kali filippino.

Finì che tra me e Bruno si instaurò un rapporto di stima reciproca e iniziammo ad allenarci assieme. Lo invitai a partecipare alle mie lezioni in modo stabile e non solo per preparare il cortometraggio. Accettò. Scoprii una persona diversa da come me l’ero immaginato. Leale, diretto e disponibile... al di là di quella sua aria da fratello psicopatico di Harry Potter che inizialmente mette un pò in soggezione. Ancora oggi è il mio principale compagno di allenamenti e un amico fraterno (almeno da parte mia … lui è un cinico bastardo senza cuore, quindi non so).

Lo chiamai e gli raccontai gli avvenimenti della giornata. Gli raccontai i particolari. Gli descrissi le qualità tecniche degli olandesi. Gli parlai dei lividi e delle botte 'sentite’. Espressi il bisogno di intensificare i nostri allenamenti, dicendogli che dopo aver visto quel modo di allenarsi non fosse più possibile continuare come prima facendo finta di nulla. Volevo fare tesoro di quell’esperienza. Non disperderla con la fine del seminario. Renderla utile.

Ci salutammo e iniziai a preparami per andare in pizzeria. Ci aspettava una cena di gruppo con tanto di pizza ai tulipani e racconti magici indonesiani.
« Last Edit: May 12, 2011, 15:40:00 pm by Claudio Alfarano »

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Offline The Spartan

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #43 on: May 12, 2011, 15:56:18 pm »
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La tragedia di questa novella è che mò m'è venuto lo scrupolo di quale tshirt usare il giorno che vado allo stage di KFM... :dis:
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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #44 on: May 12, 2011, 15:58:37 pm »
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E perché?  :-\

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