PARTE III - chi vi scrive...
Ciò accadde a Dicembre e l’eventuale seminario si sarebbe tenuto a fine Gennaio 2005.
I due mesi che mancavano all’evento passarono tranquilli. Continuai il mio corso di Jeet Kune Do e Kali con i miei circa dieci iscritti, accennando solo ad alcuni più stretti la mia partecipazione a tale evento. Avevo seguito altri seminari dell’associazione e, stanco e disilluso, decisi che questa sarebbe stata l’ultima occasione di fiducia nei confronti di tali incontri. Avevo partecipato a seminari di diverse arti marziali, a partire dagli anni ’90.
Le arti marziali mi affascinarono fin da bambino. Qualunque sport di contatto mi affascinava: Pugilato, Lotta, Rugby e Football Americano inclusi. Ero un assiduo lettore di fumetti di super-eroi e gli atleti di tali sport era ciò che più si avvicinava ai personaggi protagonisti di tali fumetti.
Da bambino, agli inizi degli anni ’70, un pomeriggio mio padre e mio cugino mi portarono al cinema a vedere un film cinese. Rimasi bloccato alla poltrona con gli occhi sgranati osservando le gesta di quegli strani personaggi con gli occhi sottili che saltavano, gridavano e si davano spettacolari calci. Erano i miei super-eroi trasferitisi su pellicola, difendevano gli indifesi, riparavano i torti, e tutto ciò, senza volare, costumi aderenti, raggi cosmici, scudi pacchiani, martelli divini o appiccicose ragnatele.
I film di quel genere divennero la mia passione, uno valeva l’altro e solo anni più tardi scoprii che c’era una gran differenza tra quel primo film interpretato da un certo Bruce Lee che combatteva in quella fabbrica di ghiaccio e tutti gli altri.
Non perdevo occasione per cimentarmi in capovolte, salti, calci girati, improvvisando combattimenti con gli amici e quando dopo aver fatto atletica, nuoto e tennis per otto anni, fui libero di scegliere l’attività da praticare, allora, finalmente decisi di cercare un corso di Full Contact. Era il 1984, il Karate non mi attirava, il KungFu, l’arte di Bruce Lee, era appena sbarcato a Napoli e a differenza della controparte giapponese, in cui i nomi dei maestri erano affermati e collaudati, per le arti cinesi circolavano pochi nomi, personaggi giovani e con poca esperienza.
La divisa bianca del Karate, le forme a vuoto, quei movimenti che apparivano legnosi, alcuni amici che avevano praticato e articoli su riviste specializzate, mi spinsero verso il Full-Contact.
Ciò che all’epoca veniva definito Full-Contact e che in definitiva era una versione del Karate meno tradizionale, più sportiva, senza divise, con l’aggiunta di tecniche di braccia prese dal pugilato e in cui si combatteva con guantoni e calzari imbottiti. Bill Wallace, Joe Lewis, Dominique Valera, Benny Urquidez divennero i principali esempi da seguire.
Praticai la KickBoxing per circa nove anni, ma l’aspetto agonistico era quello che mi attirava di meno. Partecipai a un paio di campionati regionali, classificandomi primo e terzo, ma lo scopo del mio allenamento nelle arti marziali era il raggiungimento di un buon grado di difesa personale.
In quei nove anni mi allenai con molti amici praticanti di altre arti marziali e notai una grande differenza. Io ero abituato a colpire e prendere colpi, chi proveniva da approcci tradizionali molto meno e si trovava in grande imbarazzo in un combattimento, anche se leggero. Tutta quella tradizione, quei formalismi, quella insita filosofia sventolata senza cognizione di causa, quelle frasi di sdegno pronunciate nei confronti di chi, come me, praticavano non un’Arte ma un semplice sport.. venivano sbriciolati al primo pugno alla mascella. Finii con il vedere in modo negativo le arti marziali tradizionali e i suoi praticanti.
Agli inizi degli anni ’90, stanco della Kick Boxing, decisi di dare un’occhiata all’altro lato della medaglia e mi presi un anno sabbatico tuffandomi nella tradizione. Amavo i calci e provai il Taekwondo coreano. Mesi di colpi a vuoto senza alcun contatto e battutine vergognose verso le altre arti marziali, non senza un discreto razzismo verso la Kick Boxing. Ma io guardavo quelle cinture nere che dall’alto del loro funereo colore di cintura guardavano con sufficienza i principianti, me incluso, mentre sapevo che avrei potuto metterli ko o affrontarli senza il minimo problema. Invece, ci si allenava divisi. I gradi avanzati col maestro per il quale io avevo scelto l’arte coreana, un allenamento dinamico e divertente, i nuovi con una cintura colorata, un ragazzino messo lì per intrattenerci con forme a vuoto e robetta per pensionate.
Lasciai e nella sala accanto del palazzetto dello sport vidi una cosa più divertente: il Ju-Jitsu tradizionale giapponese. Non ero un grande appassionato di cultura giapponese e tantomeno coreana, all’epoca studiavo lingua cinese all’Universita Orientale e, mentre provavo queste arti, allo stesso tempo seguivo ripetizioni di lingua cinese con il lettore madrelingua dell’università, tale Yan de Zao e imparavo il Taiji Quan con sua moglie. Il Ju-Jitsui era divertente, leve e contro leve, per me erano argomenti nuovi, ma, anche lì… niente sparring, niente combattimento, solo tecniche con compagno consenziente con attacchi stilizzati e preordinati. Lasciai deluso dopo alcuni mesi. Allestii una piccola palestrina nella mia cantina, con panche per pesi e sacco, e iniziai ad allenarmi per fatti miei.
Continuavo ad allenarmi con chi capitasse e divenni molto amico di un istruttore di KungFu stile Mantide Religiosa. Mi facevo mostrare le tecniche da lui, io mostravo ciò che conoscevo, ma sul versante combattimento non si andava d’accordo. La richiesta che mi veniva fatta era di non colpire, neanche piano. Vi era una totale disabitudine ai colpi e l’allenamento diventava frustrante quando durante il combattimento, seppur leggero, il mio amico si girava di spalle per non prendere colpi e allo stesso tempo ostentava una certa aria da maestro. Ero sempre più perplesso.
Scovai con grande gioia un corso di Capoeira e mi immersi in quei ritmi, in quella cultura e storia affascinante, lasciando che il suono del Berimbau e delle percussioni facessero da colonna sonora dei miei allenamenti. Non c’era sparring, eravamo cinque persone, la sala di allenamento piccola, ma Marcos, il maestro, era strepitoso. L’esperienza finì prima dell’estate, quando il nostro Mestre decise di trasferirsi in Canada. E’ attualmente uno dei più famosi e importanti maestri brasiliani residenti nel Nord America.
Da pochi libri iniziali, la mia libreria marziale s’era accresciuta di libri su qualunque arte marziale. Mi interessavano tutte. Di pari passo, era aumentato il mio interesse per la cultura orientale, la filosofia e le religioni, nonché lo studio della lingua cinese accompagnato da esami di religioni e filosofie dell’Asia Orientale e dell’India. Grazie ai consigli e ai libri di testo per gli esami, avevo la possibilità di approfondire i miei argomenti preferiti, il Taoismo, il Buddhismo, lo Zen, la storia e le civiltà orientali. Ciò mi trascinò, col tempo, a riaffrontare le filosofie occidentali. Non potevo conoscere e approfondire quelle di popoli così lontane e lasciare all’oscuro e a poche nozioni apprese al liceo di quelle a noi più vicine.
Grande ironia, mi trovavo a disquisire di arti marziali con praticanti tradizionali, che mi sciorinavano lezioni di filosofia orientale da fustino Dixan, rubacchiate su un paio di libretti sul loro stile, mentre io, praticante di un bastardo sport da combattimento, avevo approfondito, letto, riletto, sottolineato, riassunto e assorbito in anni di passione e studio accademico quella cultura che faceva da pilastro dei loro sistemi di combattimento.
Avevo già cominciato da anni a leggere libri su Bruce Lee, scoprendo con stupore, che fosse un appassionato di filosofia e di come avesse rivoluzionato l’approccio alle arti marziali tradizionali, ponendo dubbi, sperimentando, mixando l’allenamento tradizionale a quello moderno con metodologie prese in prestito da altri sport. Pesi, diete, l’uso dei guantoni, la sperimentazione reale delle tecniche. Ciò che più mi colpì fu l’aspetto filosofico. Diverse filosofie, come diversi stili, inglobati per formarsene uno personale. Scoprii attraverso lui i testi di Krishnamurti, Alan Watts, sul pensiero positivo, la psicocibernetica, l’automotivazione, la psicologia, i linguaggi del comportamento, la programmazione neurolinguistica. Un argomento tirava l’altro e negli anni collezionai centinaia di libri su argomenti più disparati. Nei miei viaggi negli Stati Uniti mi fornii di altro materiale introvabile in Italia, libri, videocassette.. e iniziai a scrivere la mia tesi universitaria in filosofia e in particolare sul Jeet Kune Do di Bruce Lee, ma non affrontato dal punto di vista tecnico, quanto da quello filosofico. Seppi delle persone che erano state suoi studenti, che alcuni di loro insegnavano l’approccio al combattimento di Lee. Venni così a sapere di Dan Inosanto, di Ted Wong, di Jerry Poteet, di Richard Bustillo e altri suoi allievi che avevano aperto loro accademie negli Stati Uniti.
Nel frattempo, e ciò duro dal 1994 al 2000, condussi un corso di Difesa Personale in una palestra. Fu una discreta esperienza. Molte persone vennero a provare e molti erano praticanti di altre arti marziali. Chiamai così ciò che facevo, ma in realtà era un mix di esperienze che avevo fatto, con base di Kick Boxing, con colpi sporchi, alle ginocchia, all’inguine, misto a Ju-Jitsu e altre tecniche di difesa personale apprese ai seminari. Migliorai tanto in quegli anni e l’insegnamento mi diede modo di capire e sperimentare tante cose.
Nel 1993 partecipai al primo seminario di Jeet Kune Do e da lì in poi partecipai ad altri. Furono le prime volte che mi trovai di fronte all’arte del Kali-Ecsrima filippino. Trovarmi a seguire seminari di personaggi che erano stati amici e allievi di Bruce Lee era incredibile. Molti di loro erano stati, in seguito alla morte di Bruce Lee, allievi del leggendario Dan Inosanto, suo principale amico e allievo. Costui era un famoso maestro di Kali-Escrima e aveva inglobato nel Jeet Kune Do l’uso e le metodiche dell’allenamento con i bastoni e coltello. Pur scindendo sempre il Jeet Kune Do dal resto, Inosanto era l’ambasciatore delle Arti Marziali. Lui era stato capace di unire e non dividere i diversi approcci, studiando e promulgando arti prima sconosciute.
Con le arti marziali filippine vi fu amore a prima vista. A cominciare da quell’odore bruciato che si sviluppava a seguito del contatto prolungato tra bastoni. La storia del popolo filippino, i Bothoan, le capanne in cui gli anziani tramandavano le arti guerriere ai giovani delle loro tribù, le guerre per l’indipendenza, i diversi popoli presenti nelle varie isole, le leggende dei guerrieri Moros di etnia musulmana del Sud delle Filippine, divennero un argomento di principale interesse. Un mondo di tagliatori di teste, pirati, galeoni spagnoli bloccati dalle barriere coralline incapaci di utilizzare i cannoni e costretti a combattere corpo a corpo con gli indigeni muniti di lance e cerbottane, le movenze marziali nascoste in danze e rappresentazioni teatrali durante la dominazione spagnola, e poi, secoli dopo, gli attacchi suicidi dei temibili Mangdirigma che correvano tra le fila nemiche durante la dominazione americana falciando il più vasto numero di ufficiali possibile, e i combattimenti nella giungla tra gli scout filippini armati di machete, questa volta affiancati dagli americani, contro i giapponesi armati di katana e baionetta durante la II Guerra Mondiale. Fino alle diverse scuole e stili, i diversi tipi di bastoni, i maestri leggendari e le loro storie, le sfide tra scuole, i Patayan, i combattimenti clandestini senza regole fino alla morte di uno dei combattenti.
Così, la mia passione, come per molti che si erano avvicinati all’approccio di Lee, s’era poi spostata sull’uso di bastoni e coltelli, il machete, i coltelli di varie fogge, il kriss e un efficace metodo di Boxe sporca da strada che alle tecniche di Boxe mutuate dall’uso del coltello, aggiungeva l’uso di gomiti, colpi a mano aperta, ginocchiate, sbilanciamenti e testate, chiamato Panantukan.
Assistevo perplesso a come tanti esperti di arti marziali filippine si appassionassero alle arti marziali indonesiane. Il percorso tipico era Jeet Kune Do, Kali, Silat indonesiano.
Ma tutto era così diverso.
Tuttavia, storicamente e antropologicamente, il passo verso le arti marziali indonesiane era davvero breve.
Scelsi così di seguire il corso istruttori di quell’associazione, non per il Jeet Kune Do, ma per studiare in modo approfondito le arti marziali filippine, non essendoci nella mia città nessuno con cui studiarle.
Sarei stato io il primo.
A poche settimane dall’evento, Alberto ci mandò via mail l’invito ufficiale ed ebbi la conferma definitiva: si sarebbe fatto, a Milano, fine Gennaio, a porte chiuse, a numero chiuso, ammessi solo gli istruttori e gli affiliati dal grado blu in poi. Ci venne chiesto il massimo riservo sulla notizia e altrettanta puntualità. Superato un certo orario e chiuso il conteggio dei presenti le porte della palestra comunale di Sesto San Giovanni sarebbe stato chiuse e i ritardatari lasciati fuori. In seguito, sul posto, ci sarebbero state date ulteriori spiegazioni. Aggrottai la fronte dubbioso quando lessi queste righe. A metà strada tra il senso del ridicolo e l’ironico pensiero che sotto ci fosse chissà quale segreto, magari la costituzione di una nuova setta carbonara o l’organizzazione di qualche golpe.
Grazie a una foto allegata all’invito, ebbi l’occasione di dare un volto a quel Walter di cui mi aveva parlato. Una concisa descrizione e presentazione del marzialista e una sua curiosa foto. Un individuo per nulla robusto, con un vago look anni ’70, i capelli un po’ alla Elvis, un viso che anni dopo un amico descrisse come “il fratello di Rupert Everett dopo un vistoso intervento di maxillo-facciale”, con indosso ampi pantaloni neri corti appena sotto il ginocchio, una fascia rossa annodata in vita e un'inguardabile e assai poco marziale maglia da gondoliere bianca e rossa. “Che tipo strano!” pensai. La posa della foto anche era caratteristica. Una sorta di passo con il braccio opposto lì in bella mostra. Una mano aperta in secondo piano posta accanto all’altra, in primo piano e chiusa a pugno, come a fare da scudo. Non capivo l’utilità di quella posizione, abituato alle tipiche guardie in stile pugilato o Kick Boxing.
Ebbi modo di parlare al telefono con Alberto per informazioni riguardante l’organizzazione, l’attrezzatura da portare, notizie sull’albergo per dormire… e non mi risparmiai una battuta su quella maglietta a strisce. Alberto mi riassicurò sulle qualità tecniche di Walter aggiungendo: “beh, magari, la maglietta gli chiediamo di toglierla..”. Solo una cosa mi lasciò colpito dalla foto. Gli avambracci di Walter. Non vi era differenza tra la parte dell’avambraccio più vicina al gomito e il polso. Era un tutt’uno. Un unico lingotto di carne dal gomito ai polsi e, alla fine, una grande mano ossuta e nervosa. Un largo cilindrico scettro sormontato da un grosso diamante fatto di nocche. Mi soffermai poco su quella visione. Da lì a due settimane avrei saggiato la pesantezza delle ossa di quelle mani, una delle quali recanti un grosso strano anello, incidendomi nella memoria la sua sensazione dell’impatto misto all’odore di colonia e tabacco.