IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan

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Offline Claudio Alfarano

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IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« on: May 05, 2011, 19:26:56 pm »
+4
ok.... inizio a mettere qualcosa e vediamo come và...


PARTE I - INTRODUZIONE

Il “Frutto Amaro”. Majapahit.

Il nome di un regno dell’arcipelago malese, nato poco prima del 1300 e caduto poco dopo il 1500.
L’ultimo grande regno Hindu prima dell’avvento dell’Islam.
Isola di Java, Indonesia, il centro dell’impero Majapahit, che estendeva la sua influenza dalle Filippine a Sumatra, dal Borneo alla Malesia e Singapore.
Una lunga striscia di terre che sembrano giganteschi frammenti di un megalitico smeraldo esploso milioni di anni fa nell'azzurro del Mare di Java, tra l'Oceano Indiano e quello Pacifico.
Luoghi dove il verde ancora sovrasta con le sue sfumature e colori il monotono grigio del cemento delle metropoli. Territori dove i profumi, i suoni, le voci o i silenzi riescono a coprire l’incessante brusio di auto e prodotti della tecnologia incalzante. Dove le tradizioni combattono la loro eterna battaglia per la sopravvivenza contro l’offensiva della globalizzazione.

Il mio “viaggio” inizia da questo nome: “Frutto Amaro”, “Bitter Fruit”. Un termine simbolico. Quel frutto fu oltremodo amaro per le mille navi dell’Impero Mongolo di Kublai Khan giunte lì per punire il rifiuto di pagare i tributi. Confuse e sparpagliate, colsero l’occasione di sfruttare i venti dei monsoni per il loro dimesso ritorno a casa, a capo chino, pena l’aspettar lì in territorio ostile altri sei mesi. La controffensiva dell’arcipelago partì proprio dal villaggio di Majapahit, dove il locale frutto di nome Maja era tanto amaro da prestare il proprio nome all’omonimo villaggio, come poi il villaggio fece con il regno.

Ed è proprio una terra di villaggi e tribù, capanne e pescatori, spiagge e giungle, pianure fangose, terrazze di riso, montagne e corsi d'acqua, di foreste soffocanti, dove ogni suono potrebbe essere l'ultimo, di variopinti uccelli, bufali d’acqua, geki e grandi sauri, felini e grandi primati a fare da sfondo e sottofondo a un universo esotico e affascinante. E’ il regno del mare e dei templi, il regno di Bima, Garuda e Naga, la terra del Nagarakertagama, il principale poema epico Javanese, dove le donne portano i loro figli a tracolla nei Sarong colorati e gli uomini forgiano i loro Kriss dalla lama serpentina, scolpendovi il metallo e cesellando manici e foderi di legno pregiato e osso, infondendovi benedizioni e spiriti e demoni in quelle contrade ancora temuti e rispettati. Territori selvaggi protagonisti delle narrazioni di Emilio Salgari e Joseph Conrad.

E’ in posti come questi che nacque il nostro “frutto amaro”, dalle anime di questi luoghi, dalla loro storia e dalle loro leggende. E noi, aspiranti interpreti, ultimi umili eredi di Arti in via d’estinzione, ci facciamo carico dell’onore, dell’impegno di far sì che tale cultura marziale non vada perduta, onorando e rispettando quello spirito e quella dedizione che i padri pretendono, ed è con la loro benevolenza e benedizione, parimenti a quella degli anziani e dei nostri predecessori che speriamo di continuare il nostro comune, difficile, dolce e amaro viaggio tra spirito e materia, tra anima e sangue, carne e ossa di un'Arte chiamata Pukulan.


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Luca Bagnoli

Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #1 on: May 05, 2011, 19:31:16 pm »
0
Bello , davvero bello. Anche sul Fam avevo potuto apprezzare le tue qualità di scrittore  :)

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #2 on: May 05, 2011, 19:34:38 pm »
+3
PARTE II  : L'ANNUNCIO

Giocherellavo con le briciole di pane, spingendole lungo una delle strisce della tovaglia a quadri quando Alberto disse: “conosco poche persone che sarebbero capaci di restare in piedi in un confronto senza regole con lui…”. Il gesto del mio dito che colpiva le molliche mi restò scolpito nella memoria insieme a quella frase.

Era l’ultima cena prima dell’esame di terzo grado istruttore di Jeet Kune Do, Kali Filippino e Silat Indonesiano. Il terzo anno di corso, e, come sempre, si restava a tavola a parlare di stili, storia, tecniche e personaggi di un mondo spesso grottesco. Innumerevoli erano gli aneddoti che Alberto e Emilio ci raccontavano, dimostrazioni, episodi, piccoli falsi miti del mondo marziale italiano e non. Ce n’era per tutti, nessuno veniva risparmiato. Ai racconti di Alberto, direttore dell’associazione che io rappresentavo in Campania, seguivano i divertenti commenti di Emilio, vicedirettore, di una dozzina d’anni più anziano di lui, sarcastico e pungente. Come una coppia di comici collaudati da numerose serate, Emilio chiudeva o spezzettava gli aneddoti di Alberto con una battuta divertente senza perdere un colpo, mentre lui, compiaciuta spalla, si accingeva a concludere sorridendo. Non mancavano naturalmente spunti interessanti, sulla cultura di alcuni popoli, sugli usi e costumi e stare lì a tavola, dilatare così le cene e condirle di così tanti racconti e scenette era forse l’aspetto più interessante di questi incontri.

Nonostante praticassi arti marziali già da 20 anni circa, ero rimasto al mio mondo, alla mia città, conoscevo le verità e i retroscena dei personaggi che vivevano nell’arco di una decina di km da me.

I loro racconti giravano attorno a personaggi ben più famosi, apparsi su riviste, articoli, sfide, maestri italiani, europei, americani o asiatici, si confermavano o sfatavano miti e nomi di personaggi che avevano fatto della loro passione un vero e proprio mestiere.

Militavo in quell’associazione da circa tre anni e il terzo grado istruttore rappresentava un primo traguardo per avere il diploma e completare il loro programma di insegnamento. I gradi successivi sarebbero stati approfondimenti, soprattutto nell’arte del Silat indonesiano, arte che a me interessava molto marginalmente. Vedevo il Jeet Kune Do di Bruce Lee e il Kali-Escrima filippino, appresi da Alberto alla leggendaria Inosanto Academy, assai più diretti ed efficaci delle arti indonesiane, eleganti si, ma più appariscenti e per i miei gusti troppo arzigogolate.

L’entusiasmo iniziale, l’ottimismo e la convinzione che ciò che stessi apprendendo fosse genuino, stava scemando, i rapporti con Alberto erano andati deteriorandosi a causa di alcuni spiacevoli episodi e la mia sindrome di San Tommaso mi aveva portato ad accrescere dubbi e incertezze.

Ero solito approfondire alcuni aspetti di ciò che studiavo anche fuori da quella associazione, seguendo corsi, seminari, allenandomi con esperti del settore. Potevo raffrontare tecniche di Boxe Tailandese e Jiu Jitsu Brasiliano assorbite in poco tempo in seno all’associazione con le medesime mostratemi da esperti del settore che vi avevano dedicato anni e le mie convinzioni che tutto ciò che stavo “comprando” lì, stavano vacillando da tempo. Volevo essere certo che ciò che avrei poi insegnato ad altre persone fosse reale, efficace, meccanicamente e tecnicamente corretto.

Il collezionismo marziale è uno dei più grandi mali del settore, l’andare ai seminari e aggiungere tecniche e tecniche allenate in così poco tempo al proprio bagaglio è come tornare a casa e riporre sullo scaffale in bella mostra l’ultimo modello di aeroplano da collezione già montato e colorato da altri, in contrapposizione all’appassionato che il modello se lo costruisce da sé, se lo colora e ne cura tutti i particolari, finendo col conoscerli a memoria grazie a impegnative ore e infinita pazienza, portando per giorni sulle mani i segni e l’odore di pittura e colla.

Jeet Kune Do e Kali erano già un programma fin troppo ampio, così tanti settori, meccaniche differenti, pugni, calci, lotta, leve, proiezioni, bastoni, coltelli… ma aggiungervi anche quel poco di Silat era davvero superfluo. Da un lato, con il Jkd e Kali, vedevo la ricerca continua dell’efficacia, della semplicità, pur essendo io afflitto da tale collezionismo, dall’altro, con il Silat, l’opposto: posizioni tradizionali e applicazioni troppo elaborate. Per me il Silat era l’aspetto più tradizionale e meno efficace dell’associazione, divise colorate, sarong annodati in vita e strani movimenti dei polsi. Non molto di più. Un ulteriore tassello che Dan Inosanto, amico e allievo di Bruce Lee, aveva aggiunto alla lista di arti di cui era maestro e in quanto tale degno di essere preso in considerazione. Un altro di quei simboli che componevano il suo elaboratissimo logo composto da un sistema solare di altri logo, costituito da un sole centrale, il suo, una sorta di Triskel stilizzato, e una dozzina di satelliti: Jeet Kune Do, Kali-Escrima, Maphilindo Silat, Pencak Silat Mande Muda, Malaysian Bersilat, Shooto, Savate, JiuJitsu Brasiliano, Thai Boxe, Krabi Krabong, Kenpo e altri…

A quel tempo credevo ancora alla possibilità di poter conoscere tutte quelle arti e fortunatamente questa mia convinzione stava per essere smantellata per sempre da un perfetto sconosciuto.

“Sto cercando di convincerlo a venire a Milano per un seminario”, aggiunse Alberto, “si chiama Walter. E' olandese. Allenarsi con lui è un’esperienza molto dura. Quello che fa e il modo in cui lo fa è improponibile per qualunque palestra, troppo duro, assolutamente non commerciale. Entra nelle gambe in modo diretto e senza mezzi termini, si devono avere le ossa condizionate per allenarsi in quel modo. E’ un praticante assolutamente fuori dal comune. Vederlo e sentirlo è una vera e propria esperienza”. La mia curiosità era già stata risvegliata. Gli credevo, ma volevo vederlo. Un praticante di Silat duro, efficace, senza fronzoli.

Frequentando da anni tanti esperti internazionali, Alberto aveva avuto modo di vedere persone esperte, aveva un metro di giudizio e paragone valido da poter affermare ciò con convinzione e senza secondi fini. In altre occasioni ci aveva raccontato delle serate interessanti alla Inosanto Academy, mecca delle arti marziali in California, in cui vari esperti e atleti si alternavano in sparring e incontri, campioni di KickBoxing, Thai Boxe, Savate. Lui aveva avuto modo di vedere dal vivo atleti di valore e sentirgli dire che questo tizio che si chiamava Walter fosse ‘tutta un’altra cosa’ mi colpì profondamente.

Decisi all’istante di dare fiducia a Alberto e gli confermai da subito la mia presenza nel caso si fosse riusciti ad organizzare questo seminario. Terminò la sua descrizione di questo Walter con queste parole: “ha cercato di trasmettere quello che pratica, ma pochi riescono ad accettare quel modo di allenarsi, lo fa alla vecchia maniera, Old Fashion, come si faceva un tempo, non guadagnandoci nulla, quindi decide lui con chi allenarsi. Pochi continuano a sostenere quel tipo di allenamento così duro. Lui pratica come le Arti Marziali sarebbe dovute essere. C’è chi nell’ambiente dice ‘se vuoi vedere il vero KungFu, devi andare in Indonesia’ ”. “Ok, mi interessa molto”, gli dissi, “se riuscirai a convincerlo a venire, io ci sarò”. Prima di salutarci quella sera, dandoci appuntamento per l’esame del giorno dopo chiesi: “Come hai detto che si chiamava quello stile di Pencak Silat che pratica questo Walter?”. Alberto rispose deciso: “Pukulan Madura”.
« Last Edit: May 05, 2011, 19:41:31 pm by Claudio Alfarano »

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #3 on: May 05, 2011, 19:39:39 pm »
0

Il frutto amaro....

Amaro come il veleno che riversate nei vostri colpi.
Sempre in guardia, sempre sul chi vive. Con la vita "fortemente inchiodata alla propria spina dorsale", per citare R.E.Howard riguardo i Cimmeri, la razza di Conan. Un altro guerriero che del proprio dolore ha fatto un vessillo

No, mi sa che se il Silat è il Black Metal, voi siete gli Immortal.
(anche se il paragone forse non ti dirà nulla, ti dirò solo che gli Immortal sono uno dei mei gruppi preferiti).

In altre parole, sono davvero felice di poterti leggere "live", Claudio.  :)



Fondatore dell'omonimo sistema di difesa personale!

https://www.artistimarziali.org/forum/index.php?topic=3886.0

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #4 on: May 06, 2011, 15:35:52 pm »
+6
PARTE III - chi vi scrive...

 

Ciò accadde a Dicembre e l’eventuale seminario si sarebbe tenuto a fine Gennaio 2005.

I due mesi che mancavano all’evento passarono tranquilli. Continuai il mio corso di Jeet Kune Do e Kali con i miei circa dieci iscritti, accennando solo ad alcuni più stretti la mia partecipazione a tale evento. Avevo seguito altri seminari dell’associazione e, stanco e disilluso, decisi che questa sarebbe stata l’ultima occasione di fiducia nei confronti di tali incontri. Avevo partecipato a seminari di diverse arti marziali, a partire dagli anni ’90.

Le arti marziali mi affascinarono fin da bambino. Qualunque sport di contatto mi affascinava: Pugilato, Lotta, Rugby e Football Americano inclusi. Ero un assiduo lettore di fumetti di super-eroi e gli atleti di tali sport era ciò che più si avvicinava ai personaggi protagonisti di tali fumetti.

Da bambino, agli inizi degli anni ’70, un pomeriggio mio padre e mio cugino mi portarono al cinema a vedere un film cinese. Rimasi bloccato alla poltrona con gli occhi sgranati osservando le gesta di quegli strani personaggi con gli occhi sottili che saltavano, gridavano e si davano spettacolari calci. Erano i miei super-eroi trasferitisi su pellicola, difendevano gli indifesi, riparavano i torti, e tutto ciò, senza volare, costumi aderenti, raggi cosmici, scudi pacchiani, martelli divini o appiccicose ragnatele.

I film di quel genere divennero la mia passione, uno valeva l’altro e solo anni più tardi scoprii che c’era una gran differenza tra quel primo film interpretato da un certo Bruce Lee che combatteva in quella fabbrica di ghiaccio e tutti gli altri.

Non perdevo occasione per cimentarmi in capovolte, salti, calci girati, improvvisando combattimenti con gli amici e quando dopo aver fatto atletica, nuoto e tennis per otto anni, fui libero di scegliere l’attività da praticare, allora, finalmente decisi di cercare un corso di Full Contact. Era il 1984, il Karate non mi attirava, il KungFu, l’arte di Bruce Lee, era appena sbarcato a Napoli e a differenza della controparte giapponese, in cui i nomi dei maestri erano affermati e collaudati, per le arti cinesi circolavano pochi nomi, personaggi giovani e con poca esperienza.

La divisa bianca del Karate, le forme a vuoto, quei movimenti che apparivano legnosi, alcuni amici che avevano praticato e articoli su riviste specializzate, mi spinsero verso il Full-Contact.

Ciò che all’epoca veniva definito Full-Contact e che in definitiva era una versione del Karate meno tradizionale, più sportiva, senza divise, con l’aggiunta di tecniche di braccia prese dal pugilato e in cui si combatteva con guantoni e calzari imbottiti. Bill Wallace, Joe Lewis, Dominique Valera, Benny Urquidez divennero i principali esempi da seguire.

Praticai la KickBoxing per circa nove anni, ma l’aspetto agonistico era quello che mi attirava di meno. Partecipai a un paio di campionati regionali, classificandomi primo e terzo, ma lo scopo del mio allenamento nelle arti marziali era il raggiungimento di un buon grado di difesa personale.

In quei nove anni mi allenai con molti amici praticanti di altre arti marziali e notai una grande differenza. Io ero abituato a colpire e prendere colpi, chi proveniva da approcci tradizionali molto meno e si trovava in grande imbarazzo in un combattimento, anche se leggero. Tutta quella tradizione, quei formalismi, quella insita filosofia sventolata senza cognizione di causa, quelle frasi di sdegno pronunciate nei confronti di chi, come me, praticavano non un’Arte ma un semplice sport.. venivano sbriciolati al primo pugno alla mascella. Finii con il vedere in modo negativo le arti marziali tradizionali e i suoi praticanti.

Agli inizi degli anni ’90, stanco della Kick Boxing, decisi di dare un’occhiata all’altro lato della medaglia e mi presi un anno sabbatico tuffandomi nella tradizione. Amavo i calci e provai il Taekwondo coreano. Mesi di colpi a vuoto senza alcun contatto e battutine vergognose verso le altre arti marziali, non senza un discreto razzismo verso la Kick Boxing. Ma io guardavo quelle cinture nere che dall’alto del loro funereo colore di cintura guardavano con sufficienza i principianti, me incluso, mentre sapevo che avrei potuto metterli ko o affrontarli senza il minimo problema. Invece, ci si allenava divisi. I gradi avanzati col maestro per il quale io avevo scelto l’arte coreana, un allenamento dinamico e divertente, i nuovi con una cintura colorata, un ragazzino messo lì per intrattenerci con forme a vuoto e robetta per pensionate.

Lasciai e nella sala accanto del palazzetto dello sport vidi una cosa più divertente: il Ju-Jitsu tradizionale giapponese. Non ero un grande appassionato di cultura giapponese e tantomeno coreana, all’epoca studiavo lingua cinese all’Universita Orientale e, mentre provavo queste arti, allo stesso tempo seguivo ripetizioni di lingua cinese con il lettore madrelingua dell’università, tale Yan de Zao e imparavo il Taiji Quan con sua moglie. Il Ju-Jitsui era divertente, leve e contro leve, per me erano argomenti nuovi, ma, anche lì… niente sparring, niente combattimento, solo tecniche con compagno consenziente con attacchi stilizzati e preordinati. Lasciai deluso dopo alcuni mesi. Allestii una piccola palestrina nella mia cantina, con panche per pesi e sacco, e iniziai ad allenarmi per fatti miei.

Continuavo ad allenarmi con chi capitasse e divenni molto amico di un istruttore di KungFu stile Mantide Religiosa. Mi facevo mostrare le tecniche da lui, io mostravo ciò che conoscevo, ma sul versante combattimento non si andava d’accordo. La richiesta che mi veniva fatta era di non colpire, neanche piano. Vi era una totale disabitudine ai colpi e l’allenamento diventava frustrante quando durante il combattimento, seppur leggero, il mio amico si girava di spalle per non prendere colpi e allo stesso tempo ostentava una certa aria da maestro. Ero sempre più perplesso.

Scovai con grande gioia un corso di Capoeira e mi immersi in quei ritmi, in quella cultura e storia affascinante, lasciando che il suono del Berimbau e delle percussioni facessero da colonna sonora dei miei allenamenti. Non c’era sparring, eravamo cinque persone, la sala di allenamento piccola, ma Marcos, il maestro, era strepitoso. L’esperienza finì prima dell’estate, quando il nostro Mestre decise di trasferirsi in Canada. E’ attualmente uno dei più famosi e importanti maestri brasiliani residenti nel Nord America.

Da pochi libri iniziali, la mia libreria marziale s’era accresciuta di libri su qualunque arte marziale. Mi interessavano tutte. Di pari passo, era aumentato il mio interesse per la cultura orientale, la filosofia e le religioni, nonché lo studio della lingua cinese accompagnato da esami di religioni e filosofie dell’Asia Orientale e dell’India. Grazie ai consigli e ai libri di testo per gli esami, avevo la possibilità di approfondire i miei argomenti preferiti, il Taoismo, il Buddhismo, lo Zen, la storia e le civiltà orientali. Ciò mi trascinò, col tempo, a riaffrontare le filosofie occidentali. Non potevo conoscere e approfondire quelle di popoli così lontane e lasciare all’oscuro e a poche nozioni apprese al liceo di quelle a noi più vicine.

Grande ironia, mi trovavo a disquisire di arti marziali con praticanti tradizionali, che mi sciorinavano lezioni di filosofia orientale da fustino Dixan, rubacchiate su un paio di libretti sul loro stile, mentre io, praticante di un bastardo sport da combattimento, avevo approfondito, letto, riletto, sottolineato, riassunto e assorbito in anni di passione e studio accademico quella cultura che faceva da pilastro dei loro sistemi di combattimento.

Avevo già cominciato da anni a leggere libri su Bruce Lee, scoprendo con stupore, che fosse un appassionato di filosofia e di come avesse rivoluzionato l’approccio alle arti marziali tradizionali, ponendo dubbi, sperimentando, mixando l’allenamento tradizionale a quello moderno con metodologie prese in prestito da altri sport. Pesi, diete, l’uso dei guantoni, la sperimentazione reale delle tecniche. Ciò che più mi colpì fu l’aspetto filosofico. Diverse filosofie, come diversi stili, inglobati per formarsene uno personale. Scoprii attraverso lui i testi di Krishnamurti, Alan Watts, sul pensiero positivo, la psicocibernetica, l’automotivazione, la psicologia, i linguaggi del comportamento, la programmazione neurolinguistica. Un argomento tirava l’altro e negli anni collezionai centinaia di libri su argomenti più disparati. Nei miei viaggi negli Stati Uniti mi fornii di altro materiale introvabile in Italia, libri, videocassette.. e iniziai a scrivere la mia tesi universitaria in filosofia e in particolare sul Jeet Kune Do di Bruce Lee, ma non affrontato dal punto di vista tecnico, quanto da quello filosofico. Seppi delle persone che erano state suoi studenti, che alcuni di loro insegnavano l’approccio al combattimento di Lee. Venni così a sapere di Dan Inosanto, di Ted Wong, di Jerry Poteet, di Richard Bustillo e altri suoi allievi che avevano aperto loro accademie negli Stati Uniti.

Nel frattempo, e ciò duro dal 1994 al 2000, condussi un corso di Difesa Personale in una palestra. Fu una discreta esperienza. Molte persone vennero a provare e molti erano praticanti di altre arti marziali. Chiamai così ciò che facevo, ma in realtà era un mix di esperienze che avevo fatto, con base di Kick Boxing, con colpi sporchi, alle ginocchia, all’inguine, misto a Ju-Jitsu e altre tecniche di difesa personale apprese ai seminari. Migliorai tanto in quegli anni e l’insegnamento mi diede modo di capire e sperimentare tante cose.

Nel 1993 partecipai al primo seminario di Jeet Kune Do e da lì in poi partecipai ad altri. Furono le prime volte che mi trovai di fronte all’arte del Kali-Ecsrima filippino. Trovarmi a seguire seminari di personaggi che erano stati amici e allievi di Bruce Lee era incredibile. Molti di loro erano stati, in seguito alla morte di Bruce Lee, allievi del leggendario Dan Inosanto, suo principale amico e allievo. Costui era un famoso maestro di Kali-Escrima e aveva inglobato nel Jeet Kune Do l’uso e le metodiche dell’allenamento con i bastoni e coltello. Pur scindendo sempre il Jeet Kune Do dal resto, Inosanto era l’ambasciatore delle Arti Marziali. Lui era stato capace di unire e non dividere i diversi approcci, studiando e promulgando arti prima sconosciute.

Con le arti marziali filippine vi fu amore a prima vista. A cominciare da quell’odore bruciato che si sviluppava a seguito del contatto prolungato tra bastoni. La storia del popolo filippino, i Bothoan, le capanne in cui gli anziani tramandavano le arti guerriere ai giovani delle loro tribù, le guerre per l’indipendenza, i diversi popoli presenti nelle varie isole, le leggende dei guerrieri Moros di etnia musulmana del Sud delle Filippine, divennero un argomento di principale interesse. Un mondo di tagliatori di teste, pirati, galeoni spagnoli bloccati dalle barriere coralline incapaci di utilizzare i cannoni e costretti a combattere corpo a corpo con gli indigeni muniti di lance e cerbottane, le movenze marziali nascoste in danze e rappresentazioni teatrali durante la dominazione spagnola, e poi, secoli dopo, gli attacchi suicidi dei temibili Mangdirigma che correvano tra le fila nemiche durante la dominazione americana falciando il più vasto numero di ufficiali possibile, e i combattimenti nella giungla tra gli scout filippini armati di machete, questa volta affiancati dagli americani, contro i giapponesi armati di katana e baionetta durante la II Guerra Mondiale. Fino alle diverse scuole e stili, i diversi tipi di bastoni, i maestri leggendari e le loro storie, le sfide tra scuole, i Patayan, i combattimenti clandestini senza regole fino alla morte di uno dei combattenti.

Così, la mia passione, come per molti che si erano avvicinati all’approccio di Lee, s’era poi spostata sull’uso di bastoni e coltelli, il machete, i coltelli di varie fogge, il kriss e un efficace metodo di Boxe sporca da strada che alle tecniche di Boxe mutuate dall’uso del coltello, aggiungeva l’uso di gomiti, colpi a mano aperta, ginocchiate, sbilanciamenti e testate, chiamato Panantukan.

Assistevo perplesso a come tanti esperti di arti marziali filippine si appassionassero alle arti marziali indonesiane. Il percorso tipico era Jeet Kune Do, Kali, Silat indonesiano.

Ma tutto era così diverso.

Tuttavia, storicamente e antropologicamente, il passo verso le arti marziali indonesiane era davvero breve.

Scelsi così di seguire il corso istruttori di quell’associazione, non per il Jeet Kune Do, ma per studiare in modo approfondito le arti marziali filippine, non essendoci nella mia città nessuno con cui studiarle.

Sarei stato io il primo.

 

A poche settimane dall’evento, Alberto ci mandò via mail l’invito ufficiale ed ebbi la conferma definitiva: si sarebbe fatto, a Milano, fine Gennaio, a porte chiuse, a numero chiuso, ammessi solo gli istruttori e gli affiliati dal grado blu in poi. Ci venne chiesto il massimo riservo sulla notizia e altrettanta puntualità. Superato un certo orario e chiuso il conteggio dei presenti le porte della palestra comunale di Sesto San Giovanni sarebbe stato chiuse e i ritardatari lasciati fuori. In seguito, sul posto, ci sarebbero state date ulteriori spiegazioni. Aggrottai la fronte dubbioso quando lessi queste righe. A metà strada tra il senso del ridicolo e l’ironico pensiero che sotto ci fosse chissà quale segreto, magari la costituzione di una nuova setta carbonara o l’organizzazione di qualche golpe.

Grazie a una foto allegata all’invito, ebbi l’occasione di dare un volto a quel Walter di cui mi aveva parlato. Una concisa descrizione e presentazione del marzialista e una sua curiosa foto. Un individuo per nulla robusto, con un vago look anni ’70, i capelli un po’ alla Elvis, un viso che anni dopo un amico descrisse come “il fratello di Rupert Everett dopo un vistoso intervento di maxillo-facciale”, con indosso ampi pantaloni neri corti appena sotto il ginocchio, una fascia rossa annodata in vita e un'inguardabile e assai poco marziale maglia da gondoliere bianca e rossa. “Che tipo strano!” pensai. La posa della foto anche era caratteristica. Una sorta di passo con il braccio opposto lì in bella mostra. Una mano aperta in secondo piano posta accanto all’altra, in primo piano e chiusa a pugno, come a fare da scudo. Non capivo l’utilità di quella posizione, abituato alle tipiche guardie in stile pugilato o Kick Boxing.

Ebbi modo di parlare al telefono con Alberto per informazioni riguardante l’organizzazione, l’attrezzatura da portare, notizie sull’albergo per dormire… e non mi risparmiai una battuta su quella maglietta a strisce. Alberto mi riassicurò sulle qualità tecniche di Walter aggiungendo: “beh, magari, la maglietta gli chiediamo di toglierla..”. Solo una cosa mi lasciò colpito dalla foto. Gli avambracci di Walter. Non vi era differenza tra la parte dell’avambraccio più vicina al gomito e il polso. Era un tutt’uno. Un unico lingotto di carne dal gomito ai polsi e, alla fine, una grande mano ossuta e nervosa. Un largo cilindrico scettro sormontato da un grosso diamante fatto di nocche. Mi soffermai poco su quella visione. Da lì a due settimane avrei saggiato la pesantezza delle ossa di quelle mani, una delle quali recanti un grosso strano anello, incidendomi nella memoria la sua sensazione dell’impatto misto all’odore di colonia e tabacco.
« Last Edit: May 06, 2011, 16:23:20 pm by Claudio Alfarano »


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Offline Ethan

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #5 on: May 06, 2011, 15:55:34 pm »
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per restare aggiornato

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Offline jivalla

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #6 on: May 06, 2011, 17:33:12 pm »
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Hai praticato anche thai con Aldo Chiari? .... Considerazioni di quell'Arte?


Grazie.


Jivalla

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Offline Samurai77

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #7 on: May 06, 2011, 17:39:57 pm »
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sei spettacolare claudio! un grande!

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #8 on: May 06, 2011, 18:36:44 pm »
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Hai praticato anche thai con Aldo Chiari? .... Considerazioni di quell'Arte

un pò... e ho seguito gli allenamenti per un corso allenatori.
Bello. Soprattutto per l'approccio di Aldo.
Bello il modo di allenarsi con i Pao.
Il fatto è che avevo già la testa nel Pukulan, ancora una mentalità da collezionista e il ritmo di combattimento della Thai mi piaceva meno di quello della Kick, + pugilistico, dal ritmo + spezzato e meno da cecchino (per usare un termine usato da Aldo)
L'altro mio desiderio era fare Bjj. Ma richiede tempo e impegno e io sono 'Uno' ma non 'Trino'.

Grazie Sam :-)
« Last Edit: May 06, 2011, 18:41:55 pm by Claudio Alfarano »

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Offline happosai lucifero

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #9 on: May 06, 2011, 19:05:49 pm »
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seguo con interesse

Claudio, non ci lasci col culo a terra, vero!? l'hai buttata giù bene, ora però pretendiamo il seguito della storia :sur:
« Last Edit: May 21, 2011, 16:16:11 pm by happosai »
There are more things in heaven and earth, Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy.

In quanto a educazione vado in culo a tanti


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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #10 on: May 06, 2011, 19:17:44 pm »
0
già scritto 110 pagine...

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Luca Bagnoli

Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #11 on: May 06, 2011, 19:20:38 pm »
0
 :sbav: :sbav: :sbav: :sbav: :sbav: :spruzz: :spruzz: :spruzz: :spruzz: :spruzz:

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Wa No Seishin

Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #12 on: May 06, 2011, 19:54:30 pm »
0
L'altro mio desiderio era fare Bjj.

:sur:


Ma richiede tempo e impegno e io sono 'Uno' ma non 'Trino'.

Quanto ti capisco... :(

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #13 on: May 07, 2011, 15:33:55 pm »
+2
PARTE IV - E venne il giorno...

 

Il seminario era stato programmato per le sei ore del sabato pomeriggio e le sei della domenica mattina. Arrivai a Milano a metà mattinata e passai il tempo a casa dei miei parenti residenti lì. Pranzai da loro, parlando di diversi argomenti senza risparmiargli il mio entusiasmo, misto a timore di restare deluso, per ciò che stavo per vedere. La mia valigia era piena solo del necessario per partecipare a questo incontro, più qualcosa per la serata e la partenza del giorno dopo. Nessun bastone, coltello, protezioni, guantoni o attrezzatura tipica. Ci era stato detto di portare e indossare semplicemente la divisa dell’associazione. Ritenni opportuno non portare la maglia da istruttore, per rispetto a coloro che avrebbero condotto gli allenamenti. Dopotutto, erano loro gli istruttori quel giorno, trovavo quindi assolutamente fuori luogo indossare la maglia recante scritta Instructor. Non tutti agirono come me … a loro spese.

Poche volte nella mia vita ho desiderato un’astronave o una capsula per il teletrasporto. Quel giorno fu uno di quei pochi. Non vedevo l’ora di iniziare. Il tragitto da casa dei miei cugini fino a Sesto San Giovanni fu accompagnato dalla speranza di poter davvero vedere ciò che era stato descritto da Alberto: un’arte marziale come quelle dei vecchi film, trasmessa, allenata e praticata alla vecchia maniera. Qualcosa di assolutamente fuori dai canoni moderni.

Giunsi lì, salutai e ringraziai mio cugino per il passaggio e iniziai a vedere alcuni volti conosciuti dell’associazione. Chi si fumava l’ultima sigaretta, chi si godeva la freddissima giornata di sole all’aria aperta. Entrai nella struttura.

Era stata allestita una sorta di segreteria occasionale, con alcuni istruttori che davano il benvenuto agli istruttori che giungevano da fuori, chiedendo loro il tesserino associativo e raccoglievano le iscrizioni. Ci era stato spiegato che le persone che avrebbero condotto il seminario avrebbero percepito esclusivamente il rimborso spese: vitto, alloggio e viaggio. Non accettando null’altro, come loro abitudine, come i loro maestri avevano trasmesso loro.

Sessanta euro per dodici ore di allenamento, visto lo standard richiesto generalmente, era una quota più che ragionevole. Gli esperti olandesi sarebbero stati tre. Walter e suoi due amici e compagni di allenamento. Sbirciai oltre la scrivania delle presenze e diedi un’occhiata in giro. Alcune facce viste in foto, conosciute grazie alle fotografie presenti sulle pagine pubblicitarie dell’associazione sulla rivista “Samurai”, o notate nelle pagine dei curricula del sito associativo, altre erano ben più note, i miei colleghi di corso istruttori, quasi tutti del Lazio. Un paio di sorrisi lanciati da lontano e un’altra occhiata ai presenti prima di entrare nell’ampia sala del palazzetto. Un volto nuovo: uno spilungone appoggiato al muro di mattoni rossi. Sicuramente più di quaranta anni. Osservava le persone che arrivavano fumando una Marlboro e cacciando dalla bocca nuvole di fumo e accompagnandole verso l’alto con un movimento della testa. Giacca di jeans, jeans e polo rossa. Mocassini color cuoio. Espressione serena e simpatica, vagamente sorridente. Avrei detto che il suo atteggiamento fosse quello di qualcuno probabilmente curioso quanto me per ciò che da lì a poco sarebbe accaduto. Tutti noi sicuramente conosciamo l’espressione “petto in fuori”. Ecco, la sua postura era quanto di più lontano. Spalle in avanti, braccia scese lungo i fianchi. Un’aria quasi dimessa. Allegra, curiosa, ma sicuramente non un artista marziale che vuole mettersi in mostra. Ci guardammo per qualche secondo. Cercai di associarlo a qualche viso conosciuto, ma, nulla. Pensai che fosse il fratello maggiore di qualche istruttore, qualche accompagnatore, un curioso, ma Alberto non ne avrebbe accettati. Nessuno spettatore ci disse. Solo chi pratica potrà stare all’interno del palazzetto. Niente macchine fotografiche, niente telecamere, cellulari spenti.

Entrai. Cercai con lo sguardo Alberto e Emilio, li salutai, mi chiesero come fosse andato il volo. Solita frecciatina di Alberto: “siamo riusciti a trascinarti a Milano”. Sorrisi. “E già!”, pensai tra me e me. “E già”, ancora penso tra me e me.

Baci e abbracci ai miei colleghi di corso, Fabio e Corrado da Ferentino, Andrea, l’istruttore più esperto, da Frosinone, Simone da Aprilia, il simpatico Giovanni da Alba, Piemonte. Tutti noi con la maglia neutra e non da istruttore. Quella che si da ai principianti. Tutti tranne il più “esperto”.

Come a tutti i seminari, non mancò il mercatino. Ecco una bella schiera di Sarong, tipico indumento multiuso indonesiano, indossabile come tracolla, come gonna, da mettere sulla divisa da Silat. Tutti i praticanti di Silat che si rispettino hanno un Sarong. No Sarong? No Silat! Io non mi ritenevo un Pesilat (praticante di Silat), pertanto, ritenni di restare con i pantaloni di felpa neri dell’associazione.

Ne comprai comunque tre. Due per me, stesso disegno: uno nero e argento, l’altro rosso e argento. Il terzo, blu e d’orato, da regalare.

Il campo di basket che sarebbe stato il nostro occasionale Tatami era gelido. Faceva davvero freddo. Un coraggioso chiese ad alta voce: “con o senza scarpe?”, Alberto si girò verso delle persone che non avevo notato, indaffarate a scaldarsi le chiappe sui caloriferi. Erano lì. S’erano accaparrati le uniche fonti di calore disponibili, incollati al muro. Sembravano la locandina de “I Soliti Sospetti”. Erano in riga appoggiati al termosifone difendendo la loro postazione come i naufraghi difenderebbero i pochi spazi disponibili sulla scialuppa di salvataggio dagli attacchi dei sopravvissuti ancora in acqua e inseguiti dagli squali. Un tipo dalla pelle scura rispose sorridendo beffardo: “No shoes!”, “Niente scarpe!”.

Bestemmiando in Javanese ci togliemmo scarpe e calzini. Il parquet gommoso era un freezer. Se avessimo preso qualche botta forte sarebbe bastato poggiare la parte colpita a terra risparmiando il ghiaccio. Il Jack protagonista di Titanic interpretato da Di Caprio si sarebbe gettato in acqua per proteggersi dal freddo. Ma la mia attenzione era catturata da quei tizi incollati come manifesti elettorali al calorifero. Erano tre. Quello scuro di pelle alto circa un metro e settanta. Circa la mia età all'epoca.. trentasette anni. Avrei detto un indonesiano o il tipico colore scuro di tanti calciatori olandesi. Una leggera peluria sotto al labbro inferiore. Non magro, capelli ondulati e due occhi irrequieti, leggermente fuori dalle orbite, grandi e sorridenti. Era quello che chiacchierava di più, rivolgendosi agli altri due.

Accanto a lui il tipico personaggio che si potrebbe definire “Nord Europeo”. Non più di 40 anni. Capelli chiari, corti, fisico atletico, occhi azzurri. Non molto alto. Un metro e settantacinque circa. I lineamenti tipici dei popoli nordici: zigomi alti, naso a patata, guance tornite e colorite, bocca carnosa. Discuteva e rideva con l’altro dalla pelle scura. Sarebbe potuto essere un modello di una pubblicità delle compagnie aeree olandesi.

Restai sbalordito quando rividi quella terribile e stramba maglia a strisce bianche e rosse. Avevano avuto il coraggio di indossarla niente di meno anche al seminario. Allora non era una maglia a caso messa lì per una foto. Doveva essere una vera e propria divisa o qualcosa del genere. Sotto, ampi pantaloni neri, corti sotto al ginocchio e in vita un curioso e carnevalesco alto cinturone in cuoio, chiuso da un’enorme fibbia dorata. Ai lati, all’altezza dei fianchi, il cinturone portava delle tasche fatte dello stesso materiale del cinturone. Sopra alla maglia una giacca nera, aperta, le maniche rimboccate fino ai gomiti. Sul petto sinistro un piccolo logo rotondo.

L’immagine dei gondolieri venne subito sostituita da quella dei pirati. In effetti, i gondolieri hanno le strisce nere, più sottili. Sono i pirati o i marinai a indossare spesso indumenti a strisce bianche e rosse. Ciò che in seguito avrei appreso si chiamasse Naval Jack.

Strana, pittoresca, originale, tutto si sarebbe potuto dire di quella divisa, ma non che non catturasse l’attenzione e che fosse in un certo qual modo perversamente affascinante. Una vera provocazione.

Indossata da un soggetto qualunque di certo avrebbe suscitato qualche ilarità, ma Alberto ci aveva descritto le qualità di questo olandese di nome Walter e nessuno avrebbe pensato di andare lì a prendere per i fondelli quei tizi per l’uniforme che s’erano scelti. Dopotutto, si doveva loro il rispetto che si deve a chi star per mostrarti la propria esperienza, per di più, senza guadagnarci nulla.

Walter … ah, si, dimenticavo. Per esclusione, era il terzo dei tre. Il più alto, il più taciturno, il meno olandese nell’aspetto, dall’andatura dinoccolata, il passo lungo, l’espressione di chi non riesce a capire su quale pianeta sia capitato. Diverso da come lo ricordassi nella foto. Qualche capello in meno, più magro, non muscoloso, occhi scuri, naso leggermente adunco, una mascella generosa. Era il tipo curioso vestito di jeans che squadrava i partecipanti e che fumava all’entrata del palazzetto.

Minchia!

Avrei ripetuto quell’esclamazione per tutte e dodici le ore del seminario …. e oltre!
« Last Edit: May 07, 2011, 15:43:09 pm by Claudio Alfarano »

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Offline Dottor Wolvie Killmister

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #14 on: May 07, 2011, 16:00:21 pm »
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Il Sig. Walter mi venne descritto già da Ottavio  XD , quindi, anche se immagino come andrà a finire, sto già godendo come un echidna[1]  :gh:
 1.  Copirait Fabius Thume Phacente
Fondatore dell'omonimo sistema di difesa personale!

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