Parte XVI - Domande.....
“Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”. La frase di Alberto mi riecheggia tra incudine e martello.
Settembre. Avevo sentito Walter al telefono. Dopo le doverose presentazioni a voce mi aveva anticipato il suo scambio di opinioni con Alberto.
Non ne era stato felice.
Capii che il suo sarebbe stato un ‘No!’.
La decisione era già presa. Se lui mi avesse creato problemi e Walter fosse stato d’accordo, avrei lasciato l’associazione. E così fu.
Alberto si offese, accusando Walter di volersi rubare un allievo, adducendo che fossi un istruttore della sua associazione, che dovessi apprendere il Silat da lui soltanto.
Walter spiegò a Alberto che non c’era alcun furto di allievo, in quanto l’allenare il Pukulan non avrebbe richiesto affiliazioni o iscrizioni. Gli disse che l’associazione ne avrebbe tratto addirittura un vantaggio, potendo vantare un istruttore più esperto nell’Arte del Silat e che io sarei rimasto lì in associazione. Ma Alberto fu deciso nel dire no, aggiungendo: “non puoi insegnargli!”.
In realtà, Walter non stava chiedendo il permesso a Alberto, lo stava avvisando per correttezza. Non capiva quell’ostinazione. Non vedeva dove fosse il problema. Di fronte all’ostinazione gli rispose: “Tu non dici a me cosa fare”.
Era la prova lampante di come in certi ambienti, il miglioramento reale non è cercato. Ciò che si cerca è la quota associativa, il corso di aggiornamento, il far portare i propri allievi ai seminari dell’associazione, quasi esclusivamente tenuti dai direttori tecnici. Se Alberto avesse accettato io sarei rimasto probabilmente nell’associazione, studiando Kali e Jkd parallelamente al Pukulan, appreso per me stesso.
A poco valsero i tentativi di Alberto di screditarmi, di parlare male di me a Walter, di offrirgli la possibilità di seminari periodici. Walter non aveva gradito i toni, i modi, la mentalità da marketing.
Io ancor meno.
Chiamai Alberto e diedi le dimissioni.
Fu allora che mi disse: “Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”.
“Io? Di Silat? Nulla! Ma mi ci hai fatto tu istruttore, dimmelo tu!” gli risposi.
Scoprii poi quanto ne sapesse di Pukulan anche lui. Le sue conoscenze sull’argomento si limitavano a un paio di articoli da lui scritti su una rivista di settore e ad altrettante occasioni di allenamento con gli olandesi.
Mi accusò di averlo scavalcato. Ma in realtà Alberto aveva visto Walter un paio di volte in vita sua, non lo stavo scavalcando. Walter non era il suo insegnante. Un nuovo amico mi stava invitando ad allenarmi e chi avrebbe dovuto essere interessato al mio miglioramento marziale stava tentando di screditarmi, mettermi il bastone tra le ruote e fargli cambiare idea persino offrendogli opportunità di guadagno. Questo almeno fu quello che Walter mi disse della loro telefonata.
La telefonata a Alberto fu di cortesia. Per educazione. Avevo già dato abbastanza.
Diversa fu quella a Emilio. Mi dispiacque salutarlo e non vederlo più. Pur non condividendo il suo appoggiare i comportamenti del socio. Mi disse: “mah … Sono un po’ scettico circa quanto possa durare questa tua avventura, ma ti auguro buona pratica”. Avrei rischiato anche per un solo mese di prova di Pukulan. Magari non ne avevo le capacità fisiche, la sopportazione di certi regimi di allenamento. Sapevo che sarei stato messo alla prova. Ma volevo tentare comunque.
Mi lasciai alle spalle le polemiche, le voci e la schifezza che mi lanciarono dietro gettandomi a capofitto nell’organizzazione del mio viaggio in Olanda.
La corrispondenza tra me e Walter si infittì, come anche le occasioni per parlare e chattare. Passai serate intere a parlare di Silat con lui ed era sempre disponibile e pronto a darmi qualunque spiegazione chiedessi.
Kebatinan, cultura indonesiana, stili, tecniche, caratteristiche, luoghi, nomi nuovi. Era un susseguirsi di dati che andavano ad aggiungersi alle mie conoscenze marziali e una nuova terminologia, quella indonesiana, andava a intasare il mio cervello già pieno zeppo di termini marziali stranieri cinesi, giapponesi, inglesi, spagnoli e filippini.
Mi introdusse a tutto ciò che di scritto si poteva dire sul Pukulan, alle differenze con altre forme di quest’Arte, altri approcci. A come in America, ma anche in Europa, Indonesia, il Pukulan venga interpretato diversamente e come il nome indo di quest’Arte venga distorto e abusato da molti.
Vidi video di cosiddetti esperti che avevano inventato un loro stile, definendosi non solo Guru, insegnanti, ma anche Pendakar, fondatori. Persone che senza un’idea di cosa sia il Pukulan e del perché venga chiamato in quel modo, per magnificarsi avevano usato il termine come suffisso per lo stile praticato e insegnato ma che mediocremente si agitavano avanti a ignari allievi, mostrando loro movimenti che di marziale avevano nulla.
Nomi anche illustri, di personaggi famosi che fino a pochi mesi prima erano per me dei riferimenti per quell’arte, il Silat indonesiano, che conoscevo così poco.
Quanto più un’arte è sconosciuta e poco diffusa, tanto più vi potrà essere un proliferare di individui pronti a sfruttare quest’ignoranza. Se i punti di riferimento sono pochi, poche saranno le possibilità di raffrontare e quindi distinguere il positivo dal negativo. I termini di paragone saranno impossibili.
Questo era un aspetto negativo del Pukulan.
Se in rete o in seminari si vede una forma di Pukulan che è morbida, inconsistente, arrangiata, eseguita da persone in pessime condizioni fisiche e le cui conoscenze tecniche sono assai limitate e invece il Pukulan che avevo visto e ‘sentito’ restava chiuso, per pochi, sconosciuto, allenato lontano da occhi indiscreti, allora l’idea che gli altri potevano essersi fatti doveva necessariamente essere quella disponibile a tutti. Quella che per pochi era distorta. Ma l’idea comune delle cose la da la massa. Forse era la loro idea di Pukulan a essere distorta? Come si può affermare di praticare un Pukulan diverso, quando si è pochissimi a farlo, contro centinaia o migliaia che praticano blandamente?
Se la media o la vasta maggioranza dei praticanti, ad esempio, di Karate o Kung Fu in questo secolo praticano le loro arti con l’intensità di una cozza, quale è realmente il Karate? Quale il Kung Fu?
Se esistono anche lì, e sicuramente è così, gruppi che praticano fuori dal business, in modo discreto, duro, elitario, come si può considerare ormai il loro modo di allenarsi quello vero e giusto? In base forse al loro modo di interpretare quell’arte come nei tempi antichi o ai suoi esordi avveniva?
O è solo un’interpretazione ormai?
L’interrogativo resta e resterà sempre aperto. Ciò che era la norma, ossia un’Arte allenata in modo duro, efficace, per pochi, non commerciale, diventa l’eccezione. E quale è a questo punto la vera visione di quell’Arte?
Quella dei seminari? Dei corsi per tutti? Un’arte nata per colpire in modo duro, grazie a ossa condizionate, a una mentalità resa aggressiva da intense sessioni di allenamento, per pochi, trasformata, riadattata, resa morbida per tutti, diffusa in modo da essere praticata dal massimo numero di persone possibile, è e rimane la stessa Arte?
Questi erano e sono gli interrogativi che vengono da porsi.
Eppure è il sogno di tutti i marzialisti trovare un’Arte così. E’ il corrispettivo del vedere un ufo, un fantasma per altri. Ma poi, una volta scoperto che c’è? Non poter rendere nota quell’arte, tenerla per sé, non diffonderla, non poterla mostrare per timore che altri ne possano cogliere pochi movimenti riadattandoli e distorcendoli e a loro volta aprire corsi con quel nome, cose che in effetti accadono davvero, non è frustrante? Come è possibile far finta di nulla, volgere lo sguardo altrove, lasciare che quello scempio avvenga?
E chi ha fatto della propria Arte un mestiere? Dovrà necessariamente trovare i modi per guadagnare e viverci. Che interesse avrebbe a praticare un’Arte per pochi? Non divulgabile alle masse? Che interesse ha a rendere nota un’Arte allenata così ‘old fashion’? Che interesse ha ad ammettere una differenza di questo genere avanti ai propri allievi? Il suo modo blando di praticare ne verrebbe evidenziato. Dall’alto del proprio nome famoso e della propria posizione tenterebbe di screditare quell’Arte e i suoi praticanti, di tacciarli di fanatismo. Lui e i suoi seguaci li definirebbero ‘setta’, illusi o in tutti i modi pur di non vedere screditata la propria pratica, il proprio lavoro.
Queste domande mi ricordavano quando capita di pulirsi gli occhiali da sole o da vista o lo schermo di un computer o il parabrezza della propria auto.
Con il tempo si accumula polvere, impronte, piccole macchie. Ma il modo lento progressivo in cui avviene non ci da la possibilità di accorgercene facilmente. Tutto sembra normale. Pigrizia, capacità di adattamento ci fanno abituare a tutto. Solo decidendoci di sciacquare, pulire, passare un panno sulla superficie ci dà la possibilità di vedere di nuovo chiaro. Di vedere le cose come sarebbero dovute essere. E allora con stupore ci rendiamo conto che quanto visto e osservato era offuscato da impurità. Che ci siamo persi un modo nitido di vedere le cose e poterle osservare con una qualità sicuramente più vicina a come realmente dovevano essere.
Mentre i dialoghi con Walter su Silat, Pukulan e differenti approcci continuavano, decidemmo la data del mio viaggio in Olanda. 20 Novembre 2005.
I toni con lui erano molto amichevoli, non si poneva in alcun modo come un esperto o un maestro. Mi dava spiegazioni senza ostentare conoscenza e le domande sulle arti marziali si alternavano a quelle personali.
Walter mi stava studiando. Cercava di capire che intenzioni avessi. Aveva deciso di fidarsi di me, ma restava in attesa. Voleva capire il perché un tizio che insegnava arti marziali, che viveva a migliaia di chilometri di distanza volesse allenare un’Arte con la quale non potesse guadagnarci nulla. Abbandonando la sicurezza di un’associazione che gli offriva assicurazione infortuni, affiliazione, pubblicità diretta o indiretta, un programma e una facilità di studio sicuramente maggiore di quella che poteva offrirmi lui da tanto distante e solo periodicamente.
Io e Bruno saremmo andati assieme per circa tre o quattro giorni. Saremmo stati ospiti a casa sua. Non sapevamo che per l’occasione annunciò il nostro arrivo a tutti i ragazzi che si allenavano con lui, chiedendo loro di tenersi liberi in quei giorni e a sua volta chiedendo i giorni liberi e non pagati dal nuovo lavoro che nel frattempo aveva trovato.
Ci sarebbero stati Anand, Olivier, saremmo insomma stati presentati al suo gruppo di allenamento olandese.
Eravamo felicissimi anche solo per quella ospitalità. Incerti solo se andare fin lì in macchina o in aereo, chiesi a Bruno di tardare questa scelta per un problema di salute sorto in famiglia, non avendo comunque bisogno di prenotare il volo nel caso avessimo optato per le quattro ruote.
I risultati di certi esami medici richiesero il ripetere le analisi e la preoccupazione delle incerte condizioni di salute di un membro della mia famiglia mi spinsero a tardare la conferma della nostra presenza. A pochi giorni dalla data scrissi a Walter che non mi sarebbe stato possibile andare per problemi di famiglia. Ma non ebbi alcuna risposta. Ugualmente avvenne alla mia mail successiva.
La risposta di Walter, entrambe le volte, fu il silenzio assoluto.