E allora spostiamoci a oriente, perchè è maggiormente qui che la questione sulla inutilità delle opinioni e del discuterne da il peggio di se... e di me.
D'altronde questa mia tesina nacque da lì.
Vorrei non fracassarvi i maroni oltre accennandovi chi sia Krishnamurti, e d'altronde il modo migliore per parlare di qualcuno è riportarne pensieri o azioni. Seppur nato in oriente, costui ha scritto e operato un pò ovunque e il considerarlo un "orientale" recherebbe all'ampiezza dei suoi pensieri un grave torto... e se ciò mi portasse sfiga?? :-/
Orbene...
Krishnamurti usa spesso il termine ‘ciò che è ’. Per lui, “intendere ‘ciò che è’ è molto difficile. Richiede un’intelligenza maggiore, una consapevolezza maggiore della semplice accettazione o della resa ad un’idea. Intendere ‘ciò che è ’ non esige sforzo; lo sforzo è distrazione ... Per capire ‘ciò che è ’, non dovremo essere distratti ... Noi consideriamo ‘ciò che è ’ attraverso le lenti del pregiudizio, della condanna o della identificazione, ed è estremamente arduo togliersi queste lenti e guardare a ‘ciò che è ’. Senza dubbio ‘ciò che è ’ è un fatto, è la verità, e tutto il resto è una fuga, non è la verità. Per comprendere ‘ciò che è ’, il conflitto dualistico deve cessare, perchè la risposta negativa del divenire qualche cosa d’altro da ‘ciò che è’, è il rinnegamento dell’intendimento di ‘ciò che è ’. Se intendo comprendere l’arroganza, non devo gettarmi dalla parte opposta, non devo esser distratto dallo sforzo di diventare, e neppure dallo sforzo stesso di cercare di comprendere ‘ciò che è ’... Se non do nome all’arroganza, essa cessa; il che significa che nel problema stesso si trova la risposta: non lontano da esso. Accettare ‘ciò che è ’ non è il problema. Né si accetta ‘ciò che è ’: non si accetta di essere nero o bianco, perchè è un fatto; soltanto quando si cerca di pensare a qualche cos’altro, si deve accettare. Nel momento in cui si riconosce un fatto, esso cessa di avere significato; ma una mente educata a pensare al passato o al futuro, educata a fuggire in multiformi direzioni, una mente cosiffatta è incapace di comprendere ‘ciò che è ’. Senza comprendere ‘ciò che è ’ non potrete comprendere la realtà, e senza tale intendimento la vita non avrà significato; la vita sarà una battaglia ininterrotta ove si perpetueranno dolore e sofferenza. La realtà sarà comprensibile solo comprendendo ‘ciò che è ’. Non si potrà comprenderla se vi saranno condanne e identificazioni. La mente che condanna o identifica sempre, non potrà capire; potrà capire soltanto la cosa entro cui è catturata. L’intendimento di ‘ciò che è ’, e l’esser consapevoli di ‘ciò che è ’, rivela profondità straordinarie, nelle quali sono la realtà, la felicità e la gioia
Quanto riportato è una piccola raccolta di pensieri di costui sparso in alcune sue pubblicazioni dal titolo: "La Prima e Ultima Libertà", "Libertà dal Conosciuto" e "La Sola Rivoluzione"... nel caso ci fosse qualcuno intenzionato a farsi del male non pago delle mie minchiate...
Jamme annanz!
Tutto ciò mina le fondamenta della conoscenza quale noi la intendiamo.
Su questi concetti il Taoismo si è dato alla grande.
Detto in parole povere, i taoisti sono un insieme di individui che giunti al limite della sopportazione umana per il prossimo, si sono talmente consumati le balle del vivere comune da andarsene a cazzeggio in luoghi sperduti. Eh, ma mica in gruppo... eh no, facile. Lo hanno fatto singolarmente, individualmente.
A quanti vorrei augurare di andarsene a fare i "taoisti"... neanche il sesso sarebbe lì un problema, c'è abbondanza di bestioline selvatiche che non attendono altro di un altro bel nuovo "taoista" per spezzare la routine della vita nella natura... Suvvia...
Ma cosa hanno prodotto queste mirabili e altruistiche menti?
Quale profonda saggezza è nata dalle loro frequentazioni in quel dei boschi?
A proposito di conoscenza Il taoismo, in particolare Zhuang Zi, nel secondo capitolo dell’opera a lui attribuita, intitolato “Qi Wu Lun” ( sull’ Eguaglianza di Tutte le Cose), opera una distinzione tra conoscenza inferiore o punto di vista limitato e conoscenza superiore o punto di vista del Tao. Egli spiega: “Supponiamo che tu stia discutendo con me. Se tu mi metti nel sacco, vuol forse dire che tu hai necessariamente ragione ed io ho necessariamente torto ? Uno di noi ha ragione e l’altro ha torto ? Oppure entrambi abbiamo ragione, entrambi abbiamo torto ? Noi due non siamo in grado di decidere, gli altri lo sono ancor meno. A chi ci rivolgeremo per avere la giusta opinione ? Possiamo domandare a qualcuno che è d’accordo con te; ma poichè è d’accordo con te, come può giudicare ? Possiamo domandare a qualcuno che è d’accordo con me; ma poichè è d’accordo con me, come può giudicare ? Possiamo domandare a qualcuno che è d’accordo sia con me sia con te; ma poichè è d’accordo con tutti e due, come può giudicare ? Possiamo domandare a qualcuno che non la pensa né come me né come te; ma poichè la pensa diversamente da me e da te, come può giudicare ? Dovremo attendere un quarto ?”. Si ritiene che Zhuang Zi avesse scritto il capitolo per confutare i seguaci della Scuola dei Nomi (chiamati anche Nominalisti o Dialettici), i quali credevano che la discussione potesse decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Zhuang Zi, inoltre, analizza la conoscenza inferiore, dicendo che i suoni dell’uomo consistono in parole che esprimono affermazioni, negazioni, punti di vista individuali e limitati che colgono un lato solo delle cose. Parlando dei suoni del vento, egli dice che quando il vento soffia, si levano differenti suoni.
Fighissimo, eh?
Ma mica è finita lì...
Zhuang Zi porta avanti la sua tesi dicendo che gli uomini, per lo più, non sono consapevoli della relatività delle opinioni, e considerano giuste le proprie, sbagliate quelle degli altri. Egli ritiene che i giudizi circa ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, vengano sempre formulati in base ad un punto di vista relativo, che le cose sono sempre soggette a mutamenti e presentano tuttavia tanti aspetti diversi. Importantissima, per Zhuang Zi, è la consapevolezza della relatività delle proprie opinioni, unita alla capacità di saper osservare le cose da diversi punti di vista. Marco Aurelio scriveva: “Se riuscirai a guardare le cose da diversi punti di vista, comincerà per te una nuova vita”; in modo analogo Zhuang Zi sosteneva la possibilità di potere avere, quindi, diverse opinioni circa la medesima cosa. Così dicendo, presupponeva l’esistenza di un punto di vista superiore, in cui non siamo più noi a dover giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Vedere le cose da prospettiva più alta significa vedere ‘alla luce del cielo’, dal punto di vista di ciò che trascende forme e fattezze, ciò che trascende il finito, dal punto di vista del Tao. Zhuang Zi continua dicendo: “Il ‘questo’ è anche il ‘quello’. Il ‘quello’ è anche il ‘questo’... C’è vera distinzione tra ‘questo’ e ‘quello’? .... L’essenza del Tao è tale che il ‘questo’ e il ‘quello’ non sono più contrari. E’ come se l’essenza del Tao fosse il centro di una ruota in continua rotazione. Il giusto è in continuo movimento, e così lo sbagliato. In altre parole, il ‘questo’ e il ‘quello’, nel loro contrario di giusto e sbagliato, sono punti opposti di una ruota che gira senza sosta; l’uomo che vede le cose dalla prospettiva del Tao sta al centro della ruota, comprende il movimento dei vari punti della ruota senza prendervi parte. Non vi prende parte perchè ha trasceso il finito e vede le cose da un punto di vista più alto”. Zhuang Zi paragona la conoscenza inferiore, data dalla parziale visione delle cose, alla visione di una rana in un pozzo: essa, dal fondo del suo pozzo, vede solo uno sprazzo di cielo, tuttavia è convinta che quello sia tutto il cielo. Per i taoisti, il metodo messo in pratica per giungere alla saggezza, è rinunciare alla conoscenza. Il fine della conoscenza, nel suo significato comune, è quello di distinguere; conoscere una cosa è conoscere la differenza tra quella cosa e le altre. Rinunciare alla conoscenza significa dimenticare le distinzioni. Quando tutte le distinzioni sono dimenticate, non rimane che l’unità. Così, il saggio ha una conoscenza di grado diverso e più elevato: una ‘conoscenza che non è conoscenza’. Il loro metodo può essere definito ‘negativo’. Stabiliscono inoltre una differenza tra il ‘non avere conoscenza’ e l’ ‘avere nessuna conoscenza’. La prima è uno stato di ignoranza; la seconda invece è acquisita dopo che l’individuo è passato attraverso la conoscenza.
Un'altra categoria di individui era solita trombare di rado, almeno ufficialmente.
Questi erano... o sono... booh... i monaci buddhisti.
Volendo ricercare un concetto simile nel buddhismo, nel II secolo dopo Cristo, il monaco buddhista Nagarjuna scrisse, nel capitolo XXIV delle “Madhyamaka-karika” (Le Stanze del Cammino di Mezzo): “La dottrina del Buddha è insegnata in riferimento a due verità: la verità relativa e la verità assoluta. Coloro i quali non comprendono la differenza tra queste due verità, non comprendono la profonda essenza della dottrina del Buddha...”. Egli, con questa frase, metteva in evidenza l’esistenza dei due livelli di realtà. Continua dicendo: “...La realtà assoluta non può essere insegnata, senza prima appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose: senza intendere la realtà assoluta, il Nirvana non può essere raggiunto”. Quindi, il mondo convenzionale quotidiano deve essere accettato e preso semplicemente per ciò che è: il mondo convenzionale quotidiano. Candrakirti (VI sec. d.C.), uno dei massimi esponenti della stessa scuola di Nagarjuna, afferma che tutte le entità hanno due nature, poichè esiste una percezione corretta e una percezione erronea. L’oggetto della percezione corretta è la realtà, quello della percezione erronea è la verità convenzionale. Il convenzionale e il fondamentale non sono due distinte realtà; il fondamentale non è altro che il vero modo delle cose. Ciò che rende un oggetto un’entità convenzionale e non una fondamentale, è come noi lo consideriamo. Convenzionale e fondamentale non sono distinti e non sono la stessa cosa. Anche per i buddhisti e per Nagarjuna, raggiungere l’illuminazione, il Nirvana, vuol dire pacificazione di tutte le rappresentazioni, pacificazione di tutte le discriminazioni verbali, è la cessazione del regno della parola e della mente. E’ il risultato della capacità di vedere le cose così come realmente sono: una capacità che nasce dall’annullamento della tendenza a costruire concetti della nostra mente e del nostro linguaggio quotidiani. Nagarjuna dice: “la caratteristica della realtà è di essere non dipendente da altri, non distinta dalle discriminazioni verbali, priva di pensiero discorsivo”. Per i buddhisti Madhyamaka il processo critico consiste nel prendere in esame la tesi dell’avversario e mostrargli attraverso ragionamenti fondati su principi per lui stesso accettabili, detti ‘prasanga’, che le cose non stanno nel modo che lui stesso credeva. Nagarjuna, nel libro “Vigrahavyartani” (Lo Sterminio degli Errori), afferma: “Io non nego nulla...non ho alcuna tesi”. Quando un buddhista Madhyamaka critica la tesi di un avversario, non bisogna pensare che stia cercando di affermare la reale esistenza di un tesi opposta. Essi si limitano a confutare le tesi che le cose stiano in un certo modo, senza attaccarsi alla tesi opposta. Non si impegnano su nessuna posizione. Il loro metodo può essere definito ‘negativo’. ‘Nirvana’ è il termine più noto e conosciuto della terminologia buddhista. Il suo significato etimologico è ‘estinzione di una fiamma mediante un soffio’. Esso segna la fine dell’odio e della passione, annientamento totale. L’ignoranza è la causa della sete di vivere che a sua volta è all’origine dell’attaccamento. Quest’ultimo genera dolore, il Nirvana coincide con quello stato che è la soppressione del dolore. Per Nagarjuna il Nirvana è la pacificazione della tendenza della mente a stabilire categorie e costruire concetti, la liberazione del pensiero da ogni nozione definita. Ci si dovrà concentrare su un oggetto, spostando poi l’attenzione su oggetti sempre meno definiti, fino ad arrivare a fissare l’attenzione su qualcosa che sia privo di qualsiasi segno distintivo. Quando si diviene consapevoli che anche questa nozione è condizionata, transitoria, allora, superandola, si raggiungerà la liberazione e la conseguente illuminazione.
Concludo queste mie seghe mentali considerando che quando una persona afferma qualcosa, lo fa in base alle idee pregresse che già erano dentro di sè. Accade che non abbiamo un'idea e qualcosa che sentiamo o che leggiamo ci ispira e fa nascere l'idea, accade anche che siamo d'accordo con qualcosa perchè aderisce a quanto noi già abbiamo dentro.
Col tempo, in entrambi i casi, si crea una membrana che per comodità chiamerò "sistema".
Il "sistema" sarà resistente e impenetrabile, poichè spesso formatosi sulla propria esperienza, anche se ristretta.
Quando un "sistema" ne incontra uno avverso o contrario o non condivisibile e che non rispecchia il "nostro", allora nasce un "conflitto".
Si tenta di convincersi, convincere l'altro e noi stessi, ci si barrica, si creano fossati e se ci sono altri ad ascoltare o leggere, l'"ego" farà il suo sporco lavoro a peggiorare le cose, poichè a nessuno piace avere torto.
E' possibile mutare "sistema" o cambiare idea solo se all'interno del proprio "sistema" viene a crearsi una falla, questa si allarga, e se la persona è umile con se stessa e saggia, allora un nuovo "sistema" soppianterà l'altro.
In genere ciò avviene per una esperienza, un trauma o per qualcosa di importante che ci accade, tanto importante da scavare e bucare il guscio che proteggeva il "sistema" precedente.
Come si può risolvere la questione?
Non laciando nascere "sistemi", tenendo ben presente che quanto diciamo o pensiamo è soggetto a leggi temporanee, che mutano, essendo pronti e ricettivi ai cambiamenti ed alle novità. Questo, naturalmente, è una cosa che facilmente ci spaventa, così come la paura di perdere la partita dei sistemi.
Ma prima che qualcuno MI chieda.. a Clà... ma te nun ci hai un cazzo da fare? (perchè so che ve lo siete chiesto, ammesso che qualcuno, anche lui senza un cazzo da fare, abbia avuto la pazienza di leggersi tutto sto papiello fino in fondo... ) traggo le mie conclusioni.
E' importante imparare a "MOLLARE LA PRESA", poichè tutta cambia, perchè l'unica cosa immutabile è il mutamento stesso. Cazzo, questa era bella. Peccato sciuparla così...
Tutti i castelli sono castelli di sabbia... e restano solo impresse nel tempo le cazzate che facciamo o che diciamo....
INCLUSA QUESTA!!!!
Ci si chiede chi trombasse meno... i filosofi occidentali? Loro avevano cortigiane e peripatetiche..
Nonostante l'idea di peccato pubblicizzato degnamente dalla religione cristiana facesse un pò da schermo protettivo..
Gli orientali? Abbiamo detto che i taoisti avevano di che sfogarsi, i monaci buddhisti erano dediti ai trenini ancor prima dell'avvento del carbone e delle rotaie...
Ma so benissimo che adesso state pensando a me.... Bastardi, non sono mica un filosofo.... :-/