Il buddhismo (prendo come riferimento, per comodità e semplicità, quello tibetano) "predica" la sacralità della vita (tant'è vero che i più puristi non mangiano né uccidono neanche gli animali) ed in generale una sorta di pacifismo. Al tempo stesso, molte arti marziali ricavano, almeno nelle loro formulazioni più moderne, alcuni principii derivandoli dalle filosofie tra cui, appunto, il buddhismo.
Lo domando ai più esperti, e soprattutto a quelli (se mai ce ne sono) di confessione buddhista. Come si può conciliare l'idea della sacralità della vita con l'idea dell'ammissibilità dell'uccisione dell'avversario - a mio avviso - intrinseca alla pratica delle arti marziali? Ammissibilità non necessariamente nel senso di volontà diretta di uccidere, ma anche solo di accettazione del rischio di uccidere attraverso la propria arte.
« Risposta #2 inserita:: Settembre 28, 2011, 07:52:34 »
la stoai insegna che i monasteri in oriente erano esentasse. quindi si affidavano loro le ricchezze e i terreni in subaffitto. quindi diventavano mira di predoni ecc. quindi dovevano difendersi. si chiama sopravvivenza... filosoficamente le due idee cozzano, ma è sufficiente imbastire qualche favola perché la gente non ci pensi.
« Risposta #7 inserita:: Settembre 28, 2011, 12:08:14 »
Per meglio indirizzare la discussione, faccio un chiarimento.
È praticamente ovvio che a spingere all'uso della violenza un "non violento" sia la necessità. Si chiami sopravvivenza, fame, autodifesa, non ha troppa importanza.
Quello che sto cercando di capire è: quale giustificazione la filosofia buddhista (tibetana, ma in generale, di tutte le correnti) dà alla necessità dell'uso della violenza? La accetta in quanto necessaria, tout court? Oppure usa delle sofisticate supercazzole misticheggianti?
Non puoi immaginare quanto sia complicata la domanda che mi hai posto. La risposta più sensata che mi viene in mente è: non lo so.
Era così importante?
Lo era per impostare un certo tipo di ragionamento, ma la tua risposta è ugualmente indicativa.
Ad ogni modo, fai la stessa domanda al signor X, che tu sai essere cristiano. Lui ti risponderà "sì, certo". Ok. Ora digli di analizzare la sua condotta di vita. Anche se non lo conosco, sento di poter affermare con ragionevole certezza che il signor X fa un sacco di cose che come cristiano non dovrebbe fare e non ne fa tante altre che, sempre come cristiano, dovrebbe. Digli poi che se ha qualche dubbio di tipo teologico o in materia di fede, ci buttasse dentro pure quello. Fatto? Bene.
Rifagli la domanda: sei cristiano? Se ti risponde ancora sì, tu hai capito anche come si conciliano Buddhismo e arti marziali.
Lo era per impostare un certo tipo di ragionamento, ma la tua risposta è ugualmente indicativa.
Ad ogni modo, fai la stessa domanda al signor X, che tu sai essere cristiano. Lui ti risponderà "sì, certo". Ok. Ora digli di analizzare la sua condotta di vita. Anche se non lo conosco, sento di poter affermare con ragionevole certezza che il signor X fa un sacco di cose che come cristiano non dovrebbe fare e non ne fa tante altre che, sempre come cristiano, dovrebbe. Digli poi che se ha qualche dubbio di tipo teologico o in materia di fede, ci buttasse dentro pure quello. Fatto? Bene.
Rifagli la domanda: sei cristiano? Se ti risponde ancora sì, tu hai capito anche come si conciliano Buddhismo e arti marziali.
La risposta mi convince in parte, e ti spiego perché.
Stiamo facendo due discorsi leggermente diversi. Tu guardi al fattore soggettivo, a se cioè il singolo individuo è coerente nell'agire col proprio credo. Io invece sto riflettendo sul fattore oggettivo, ovverosia: la religione, in sé, giustifica tale condotta, e se sì perché?
Esempio. Nell'Antico Testamento, c'è scritto di non uccidere. Tuttavia, Sant'Agostino a un certo punto scrisse pressappoco che se è Dio a ordinartelo, l'omicidio non è più peccato ma virtù. Il che agli occhi dei cattolici di oggi potrà sembrare assolutamente sbagliato, ma all'epoca era un concetto bene assorbito da chi uccideva (si pensi solo alle Crociate, senza andare a scomodare giudizi morali dati a posteriori).
Quello che voglio dire è che, almeno all'epoca, le religione cristiana ad esempio dava una qualche giustificazione espressa dell'uso della violenza, nello specifico dell'omicidio, pur riconoscendo già la sacralità della vita. Ammetteva, insomma, delle deroghe. Deroghe che però, in tutti i testi buddhisti che ho letto fino ad oggi, non mi sembra di aver visto.
E qui si ritorna alle arti marziali. Nell'artista marziale che, pur essendo, poniamo, buddhista, uccide, conta solo il fattore soggettivo? O c'è invece un fattore oggettivo, una giustificazione "dall'alto", di cui sono all'oscuro?
« Risposta #13 inserita:: Settembre 28, 2011, 14:03:01 »
whed ha scritto:
Citazione
Esempio. Nell'Antico Testamento, c'è scritto di non uccidere.
Se ti riferisci al comandamento biblico, mi spiace informarti che (probabilmente) sei vittima, come MILIONI di altre persone di un GROSSO MALINTESO.
Anche io non ci capivo una mazza in questa oscura questione dell' uccidere/non uccidere secondo la religione giudaico cristiana.
Ma POI venni a contatto con i testi del Ten. Col. Dave Grossman, e tutto fu luce!
Molto in breve: per Grossman, tradurre il comandamento originale (in ebraico) con "non uccidere/thou shall not kill" è IMPROPRIO, in quanto il verbo usato nell'originale indica non il generico omicidio, ma il toglierte la vita PER INTERESSE O VANTAGGIO PERSONALE.
Dunque, (es.) il soldato di fede ebraica o cristiana che uccide in battaglia (quindi per ragioni e motivi a lui superiori) NON commette peccato.
Citazione
Quello che voglio dire è che, almeno all'epoca, le religione cristiana ad esempio dava una qualche giustificazione espressa dell'uso della violenza, nello specifico dell'omicidio, pur riconoscendo già la sacralità della vita. Ammetteva, insomma, delle deroghe.
Sulle deroghe: hai voglia... Sulla sacralità della vita: forse ci siamo fatti troppo influenzare dai pistolotti dei papi recenti in materia di procreazione e concepimento. Ricordiamoci che per un VERO cristiano, la VERA vita è quella DOPO di questa. Che poi al giorno d'oggi i veri cristiani scarseggino alquanto (la maggior parte sono "social christians") è una cosa che mi sembra sotto gli occhi di tutti. E, aggiungo, forse improprio supporre che le cose fossero diverse secoli addietro.
« Ultima modifica: Settembre 28, 2011, 14:14:03 da Kilik »
whed ha scritto: Se ti riferisci al comandamento biblico, mi spiace informarti che (probabilmente) sei vittima, come MILIONI di altre persone di un GROSSO MALINTESO.
Anche io non ci capivo una mazza in questa oscura questione dell' uccidere/non uccidere secondo la religione giudaico cristiana.
Ma POI venni a contatto con i testi del Ten. Col. Dave Grossman, e tutto fu luce!
Molto in breve: per Grossman, tradurre il comandamento originale (in ebraico) con "non uccidere/thou shall not kill" è IMPROPRIO, in quanto il verbo usato nell'originale indica non il generico omicidio, ma il toglierte la vita PER INTERESSE O VANTAGGIO PERSONALE.
Oddio, guarda, non per polemica ma mi sembra che chi di Scrittura se ne intende non faccia proprio riferimenti a questa interessante traduzione di grossman
nè che la traduzione di grossman sia in linea con l'evangelico "Porgere l'altra guancia". Se realmente la traduzione fosse quella non ci sarebbe bisogno di tutti i distinguo che si sono succeduti dallla nascita del cristianesimo